La mancanza di una memoria condivisa è un fattore chiave dell’attuale impasse dei Balcani, secondo Refik Hodzic, dell’International Center for Transitional Justice (New York). Hodzic ne ha parlato al convegno “Finestre balcaniche: sguardi tra presente e futuro in Bosnia Erzegovina”, organizzato da IPSIA Milano presso il centro culturale San Fedele il 26 gennaio 2013, in occasione del ventennale dallo scoppio della guerra bosniaca.
In Bosnia è in corso una guerra tra narrative in competizione, condotta dalle élite politiche e dei media per la verità sul passato. Secondo Hodzic, ciò sta diventando talmente velenoso e potenzialmente pericoloso tanto quanto i discorsi d’odio che negli anni ’80 hanno posto le basi per il conflitto. Le memorie del passato vengono riplasmate per calzare queste narrative di sacra vittimizzazione, piuttosto che essere usate per raggiungere una comprensione reciproca, arrivando anzi ad ignorare platealmente fatti ormai stabiliti oltre ogni ragionevole dubbio.
“Sono i leader politici, oggi, a dirci aggressivamente cosa ricordare“, sostiene Hodzic. Un esempio: Rajko Basic, portavoce ufficiale di Milorad Dodik, “padrone” della Republika Srpska con il suo partito SNSD, che nel giugno 2012 spinge apertamente i sindaci e le amministrazioni locali a negare apertamente il genocidio di Srebrenica. Il revisionismo storico dei leader della Srpska si spinge a negare i fatti del bombardamento del mercato (Markale) di Sarajevo, stabiliti definitivamente nel corso del processo Milosevic/Galic dall’ICTY, o il bombardamento del raduno giovanile di Tuzla del 25 maggio 1995. Dodik è arrivato ad accusare i musulmani di aver ucciso i loro stessi concittadini per dare la colpa ai serbi.
Un altro caso è quello di Prijedor: là dove più di 3000 civili sono morti negli infami campi di concentramento di Omarska e Keraterm, il sindaco Pavic nel 2012 ha proibito la celebrazione del 20° anniversario, arrivando a minacciare di incriminare gli attivisti a livello penale. Emir Hodzic ha instaurato una protesta silenziosa, restando in piedi tutto il giorno, nella piazza centrale di Prijedor, il giorno dell’anniversario, con in mano una rosa rossa e una sacca bianca per cadaveri.
L’impatto distruttivo sulla riconciliazione di questa visione alternativa del passato recente, sponsorizzato dalle autorità di Banja Luka, è rafforzato dalle narrative di vittimizzazione e dalla riabilitazione di criminali di guerra condannati, presentati come eroi in televisione o trattati con tutti i riguardi dal governo. E si tratta, secondo Hodzic, di una pratica pervasiva non solo tra i serbi, ma anche tra i bosgnacchi e i croati. Per i bosgnacchi, la narrativa di vittimizzazione è oggi alla base dell’identità nazionale, tanto che quei ricercatori indipendenti che osano mettere in discussione, sulla base di dati scientifici, il numero di 200-300.000 vittime nel conflitto, per riportarlo a termini più realistici di 65-95.000 vittime, vengono indicati come traditori per aver danneggiato la Bosnia nel corso dei processi dell’ICTY. Questi numeri gonfiati sono resi sacri per le narrative nazionali dai politici e dai leader religiosi attuali e passati, sempre secondo Hodzic, compreso l’ex muftì di Bosnia Mustafa Ceric, in piena continuità con i discorsi del tempo della guerra. A ciò si aggiunge la guerra dei memoriali, con una serie di monumenti eretti solo per umiliare l’altro, e il revisionismo della narrativa della seconda guerra mondiale, in cui i partigiani titini sono demonizzati mentre i collaborazionisti dei nazifascisti sono elevati al rango di eroi.
La questione da chiedersi, secondo Refik Hodzic, è: “perchè?” Perchè si è arrivato a tanto, in così poco tempo? La situazione sembrava molto più promettente nel 2005, quando la Republika Srpska aveva ordinato una Commissione su Srebrenica, e i suoi leader erano arrivati a dare delle pubbliche scuse per quanto avvenuto nell’enclave, mentre a livello nazionale sembrava possibile istituire una commissione-verità. Il problema risiede nella simbiosi tra post-conflitto e transizione economica. Le élite, secondo Hodzic, hanno eretto una cortina fumogena per nascondere il loro continuo saccheggio delle risorse e delle vecchie proprietà dello stato. Le narrative sul passato vengono utilizzate per prevenire una discussione sul presente. Dodik non è affatto un nazionalista – la sua accumulazione di ricchezze personali mostra chiaramente come questa politica sia profittevole per i pochi eletti.
Il problema riguarda il futuro: sono i giovani bosniaci a pagare le conseguenze più serie di queste narrative. Quella nata dopo la guerra è una generazione cresciuta separata per etno-nazionalità, attraverso la miope politica della segregazione scolastica (“due scuole sotto lo stesso tetto”). L’aggressiva retorica nazionalista che gli viene riproposta, secondo Hodzic, gli sta impedendo di venire a conoscenza della realtà vissuta dagli altri loro stessi concittadini.
La comunità internazionale, sempre secondo Hodzic, ha una certa responsabilità in questo. I negazionisti dell’olocausto non sono i benvenuti in Occidente, ma chi nega le realtà storiche della guerra di Bosnia, come il muftì Mustafa Ceric, può continuare a ricevere premi per il dialogo interculturale. Bisogna rendersi conto che queste non sono semplici retoriche politiche. Servirebbe che l’Unione Europea se ne facesse carico, inserendo la giustizia transizionale nel suo percorso verso l’adesione l’UE.
E’ sempre più riconosciuto che esiste un legame inestricabile tra le questioni di memoria e verità storica, da una parte, e lo sviluppo, la stabilità e la sicurezza di lungo periodo dall’altra. L’economia, i posti di lavoro non possono risolvere ogni cosa.
Tuttavia, secondo Hodzic, ci sono molti motivi di speranza. Esistono molteplici iniziative degli stessi bosniaci per sfuggire e depotenziare queste retoriche nazionaliste. Dall’iniziativa di Mirsad Tokača di un libro dei nomi per le vittime del conflitto, per fermare la battaglia sui numeri; alle azioni della Youth Initiative for Human Rights, del Centre for Non Violent Action per il dialogo tra i veterani dei diversi eserciti, del gruppo delle vittime di Prijedor, all’iniziativa di erigere un monumento ai cittadini serbi di Sarajevo uccisi durante l’assedio, all’Helsinki Committee della Republika Srpska e al progetto di una commissione di riconciliazione su scala regionale (REKOM). Tutto ciò per sottolineare come, in Bosnia, ricordare riguarda il futuro.
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Buon pezzo, Davide. Purtroppo le iniziative dal basso, in Bosnia, servono a poco. E non è più neanche un problema di nazionalismo o di marciume dei partiti. La soluzione al problema bosniaco è molto, molto lontana nel tempo. Così come l’Europa. Nel frattempo, ragionando in termini pragmatici, l’unica opzione è mantenere uno status quo accettabile.
M.
Sono d’accordo su tutto, tranne sull’erigere un monumento per i cittadini serbi morti durante l’assedio di Sarajevo. Ci vorrebbe un monumento per i cittadini di Sarajevo morti durante l’assedio, punto. Senza distinzioni. Fare un monumento per i serbi, uno per i musulmani, uno per i croati ecc ecc sarebbe solo l’ennesimo gesto di segregazione etnica. E credo che sia l’ultima cosa di cui c’è bisogno.
Un buon articolo
Sono d’accordo con Hodzic e con i commenti.
Mi fa piacere che per una volta siamo tutti d’accordo 🙂
Ottimo articolo, va però ricordato che solo col passare del tempo la memoria viene condivisa. Basti pensare che per gli accadimenti degli anni 1940-1945 si é dovuti arrivare all’anno 2000 col Rapporto finale della Commissione mista italoslovena
per arrivare a una verità condivisa. Nel caso bosniaco il problema é aggravato e condizionato da politici impegnati a selezionare le risposte secondo miserabili interessi di parte.