Eurodemocrazia nella morsa dei populismi

RUBRICA: Opinioni ed eresie

L’osservazione dell’Europa, e in particolare dei 27 Paesi che fanno parte della Unione Europea,  conferma la tesi secondo cui l’andamento dell’economia incide potentemente sul funzionamento delle istituzioni politiche. È noto da molto tempo che esiste un rapporto stretto fra lo sviluppo economico e la genesi, e poi la stabilità, della democrazia. L’Europa di oggi ci mostra anche quanto  sia stringente il legame fra la crescita (o la recessione) economica e i processi d’integrazione sovranazionale. La crisi economica mondiale cominciata nel 2008 e poi sfociata nella crisi dei debiti  sovrani europei, sta mettendo a dura prova l’Unione Europea. La crisi dell’euro, innescata dalla  vicenda greca, all’inizio sottovalutata e poi mal gestita dalle istituzioni UE, e dai governi nazionali, ha fatto precipitare un conflitto trasversale fra Paesi detti virtuosi e Paesi non virtuosi, tuttora in corso. Perché questo aspetto è così importante?

Perché la crisi ha esasperato tendenze che erano già in atto da tempo (almeno dai tempi del referendum francese del 2005 sul trattato costituzionale), facendo definitivamente emergere in molti, se non in tutti, i Paesi aderenti all’UE, forti correnti  antieuropee che incidono sugli equilibri politici interni con conseguenze che, a loro volta, si ripercuotono sulla stessa UE. La crisi ha definitivamente trasformato il tema europeo in una issue di politica interna, capace di spostare voti, di modificare equilibri, di far cadere governi. Dalla Finlandia all’Austria all’Olanda (Paesi cosiddetti virtuosi), dalla Grecia all’Italia, al Portogallo o alla Spagna (il meridione indebitato), sono emerse o stanno emergendo forze antieuropee. Sono state tenute a bada fino a oggi. Ma non è detto che ciò sarà ancora possibile domani se la crisi  economica continuerà a lacerare il tessuto sociale di molte società europee.

La “Repubblica europea” (per applicare un’antica denominazione all’attuale Unione) è entrata in una spirale che ha  portato alle seguenti conseguenze:

• sono state messe fuori gioco (con la sola, ma rilevante, eccezione della Bce) le tradizionali  istituzioni sovranazionali (Commissione e Parlamento) o, quanto meno, ne è stato fortemente ridimensionato il peso politico. Da quando la crisi è esplosa i governi nazionali sono tornati a svolgere il ruolo di principali protagonisti.

• si è manifestato un irrigidimento dei Paesi virtuosi guidati dalla Germania, a sua volta effetto di un irrigidimento degli elettorati di quei Paesi, che ha prodotto, e sta producendo, contraccolpi, alcuni dei quali potrebbero avere serie, e irreversibili, conseguenze. Si pensi al rifiuto della Gran Bretagna di sottoscrivere il Patto di stabilità (fiscal compact), un patto che è espressione della filosofia economica tedesca. Una forzatura che ha rinvigorito le correnti antieuropee da sempre presenti in Gran Bretagna e che l’hanno oggi portata a un passo dal ritiro dall’UE. Se quel ritiro effettivamente ci sarà, le conseguenze saranno pesanti. Soprattutto verrà meno, in prospettiva, la possibilità di “bilanciare” la Germania all’interno della UE.

L’irrigidimento tedesco, inoltre, ha anche altri effetti: soprattutto, rende più difficile la ripresa economica dei Paesi attualmente in condizioni recessive. Ne potrebbero derivare sconvolgimenti elettorali e il rafforzamento di orientamenti antieuropei. È vero che le crisi, quanto più gravi sono, tanto più spingono all’innovazione. Dall’attuale crisi, secondo i più ottimisti, potrebbe nascere (vedi il caso del varo dell’unione bancaria) un rafforzamento, anziché un indebolimento, dell’integrazione europea.

Gli ottimisti possono avere ragione ma solo a patto che i Paesi europei escano rapidamente dall’attuale stato recessivo. Altrimenti, dovremo aspettarci la crescita elettorale di movimenti antisistema (e antieuropei) in diversi Paesi, anche con qualche minaccia alle loro istituzioni democratiche, e un accrescimento delle tensioni infra-europee. In queste condizioni, anche il rapporto fra l’Europa e il resto del  mondo resta problematico. I grandi Paesi europei, soprattutto, si muovono ciascuno per conto proprio. Come, da ultimo, ha confermato l’incapacità di adottare una posizione comune sulla questione dell’ammissione all’Onu come Stato osservatore dell’Autorità Nazionale Palestinese. Né verso il mondo economicamente emergente dell’Asia e dell’America Latina né verso il turbolento mondo islamico, l’Europa è in grado di dotarsi di una politica estera comune. Oltre che derivare dalla storia passata, ciò è anche il riflesso dei differenti orientamenti che, in una fase di crisi, prevalgono all’interno  delle diverse democrazie europee.

Fonte: Ispi

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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