di Federico Resler
A 18 anni dall’inizio della sanguinosa Guerra Civile in Bosnia-Erzegovina, a 15 anni dalla contrastata “Pace di Dayton”, lo scenario geopolitico bosniaco non sì è ancora del tutto stabilizzato. Uno Stato, la Bosnia-Erzegovina, presente solo sulla carta e diviso in due entità politiche regionali ben distinte: la Republika Srpska, enclave serba desiderosa di riannettersi alla madrepatria e la Federazione Croato-Musulmana, con capitale Sarajevo.
Il contesto bosniaco è così dominato da una serie di contrasti religioso-culturali latenti tra le tre comunità (musulmana, serba e croata), da uno stato di incertezza continuo, da un potere politico debole e diviso e da una pace fragile, garantita solo dall’apporto delle truppe internazionali di peacekeeping. In questo panorama di estremo caos politico istituzionale sono riusciti a inserirsi con estrema facilità e a trovar rifugio nel tessuto civile, una serie di organizzazioni islamiche fondamentaliste come i Fratelli Musulmani, i guerriglieri ceceni e la Jihad islamica internazionale. Una vera e propria avanguardia terroristica nel cuore dell’Europa, ad appena venti minuti d’aereo dall’Italia.
L’afflusso in Bosnia di fondamentalisti ha avuto inizio con la guerra nell’ex Jugoslavia: spinti dalle atrocità commesse dalle truppe serbe sulla popolazione bosniaco-musulmana, migliaia di jihadisti provenienti da tutto il mondo (Nord-Africa e Medio-Oriente in particolare) giunsero in aiuto dei propri correligionari ed iniziarono a organizzarsi in formazioni paramilitari, con l’intento di fronteggiare le truppe di Belgrado.
Il numero dei volontari islamici internazionali aumentava di giorno in giorno, soprattutto grazie alle campagne di informazione portate avanti dalle varie moschee, che narravano e mostravano i massacri e le violenze perpetrate ai danni dei musulmani di Bosnia, così da accendere gli animi dei fedeli più intransigenti.
A fronte dell’enorme presenza di combattenti stranieri, lo Stato Maggiore dell’Esercito Bosniaco-Musulmano decretò la costituzione del reparto “El Mudzahedin”, una unità speciale che si distinse in innumerevoli battaglie, specialmente nella Bosnia centrale.
Con la fine delle ostilità belliche, i mujaheddin, invece di abbandonare il suolo bosniaco, decisero di stabilirvisi e il Governo di Sarajevo, riconoscente per i servigi resi alla nazione, donò loro la cittadinanza. Anzichè deporre le armi, i combattenti islamici fiutarono l’enorme possibilità offerte dalla Bosnia, un “failed state” ( stato fallito) con una architettura istituzionale alquanto gracile: l’ideale per iniziare attività di addestramento terroristico e di predicazione integralista.
Così jihadisti, imam fondamentalisti e numerosi membri di Al Qaeda continuarono a giungere in Bosnia per completare la loro missione religiosa: la formazione di un vero e proprio “Jihadistan” europeo.
Il più attivo su questo fronte fu l’imam egiziano Al Misry, ideatore di un pamphlet, “Le opinioni che dobbiamo correggere” nel quale si citano i presunti errori dei musulmani di Bosnia, come l’accettazione della libertà e della democrazia.
Tali divulgazioni ultra-ortodosse proseguono ancora oggi e ancora oggi proseguono le esercitazioni paramilitari di gruppi terroristici, in particolare egiziani, algerini e ceceni, braccati in patria dalle forze dell’ordine.
Durante questi anni sono stati numerosi sia gli scontri con le truppe Onu, sia con la popolazione locale, figlia di un Islam moderato, tollerante, europeo, non fautore di morte e violenza. Ma le protezioni di cui godono i mujaheddin sono troppo elevate per favorire un loro sradicamento: agganci con membri del governo, patti segreti e vecchi ricatti risalenti alla guerra civile hanno messo sotto scacco le autorità bosniache.
Molti di questi volontari e missionari islamici attualmente operano indisturbati e diffondono il loro seme di odio innanzitutto tra i giovani, più permeabili a lasciarsi influenzare dal verbo fondamentalista.
Una questione, quella della Bosnia che, se non verrà risolta a breve, potrà trasformare lo stato balcanico nella palestra privilegiata del terrorismo internazionale e in un bubbone insanabile per l’intera Comunità Internazionale.
benché ci siano sacche militanti sparse nel territorio, credo che la questione dell’islam radicale in bosnia e dell’avamposto jihadista in occidente sia un’esagerazione della stampa, da prendere con le pinze. da quello che mi risulta, inoltre, non c’è mai stato uno scontro tra il contingente europeo Altea e gli islamici.
il vero problema islamico della bosnia, oggi, è la progressiva influenza del clero. mustafa ceric, il gran mufti di sarajevo, si comporta come un vero e proprio capo di partito e tiene sotto scacco la classe diritente musulmana, divisa al suo interno e sempre più debole e discreditata.
c’è tuttavia da sottolineare come il crescente peso della religione sia dovuto al processo di rielaborazione dell’idendità musulmana, retaggio della guerra e conseguenza del fatto che anche all’interno degli altri due popoli costituenti della bosnia, croati e serbi, si è registrata in questi quindici anni post-dayton, una costante radicalizzazione in termini culturali e politici.
Sembra anche a me che Resler descriva in modo eccessivo la situazione relativa alla presenza dei fondamentalisti islamici in Bosnia attualmente. Il resto purtroppo è esatto e se non si accellera l’entrata in UE di tutti i paesi ex-jugo ci saranno problemi seri entro un decennio penso. Lo stesso discorso al megacubo vale per la Turchia. Pensare che se avessimo inglobato tutta la ex jugo in UE prima della fine degli anni 90 a quest’ora russi e nazionalisti locali vari sarebbero innocui fenomeni folkloristici. Invece la gente bosniacca che ancora non è riuscita a scappare si trova in uno stato di disperazione pesantissimo e in una realtà sociale primitiva e degradante.