Nadezhda Tolokonnikova è in viaggio verso la regione della Mordovia, a oltre 500 chilometri dalla capitale russa. Maria Alyokhina è stata assegnata a Perm, il “cancello per la Siberia” ai piedi degli Urali, più di 1000 chilometri la separano da Mosca.
Le due regioni sono tristemente note dagli anni del Kgb, dei gulag e dei lavori forzati: non delle purghe degli anni Trenta, ma fino a poco prima del crollo del’impero sovietico (il campo di Perm fu chiuso nel 1987).
La vicenda delle Pussy Riot è politica, non privata, scrive Jasmina Tešanović. E così è ormai tutto quello che le riguarda.
Lo è la sentenza: politica. Non solo la decisione di riconoscerle colpevoli del reato di “teppismo religioso”, che oltretutto è stata in gran parte condivisa dai russi, e che probabilmente avrebbe avuto un corso simile anche in altri paesi (in Italia per blasfemia sono previste pene pecuniarie e fino a due anni di carcere).
Soprattutto è politica la scelta del luogo di incarcerazione, che richiama alla mente le purghe sovietiche, e che allontana definitivamente le due ragazze dai loro figli. Nessuna visita. Una scelta politica, quella di non accettare la richiesta delle Pussy Riot di essere incarcerate a Mosca per poter mantenere i contatti con i propri bambini. Forse il potere teme l’effetto “piccoli dissidenti crescono“, certamente ha voluto dare una punizione esemplare, senza sconti per nessuno, probabilmente addirittura annullando la condizione di “donne” delle Pussy Riot nel non tenere conto del loro essere mamme.
Scarseggiano le informazioni, invece, sulla decisione di rilasciare Yekaterina Samutsevich (Katia), convertendo la pena a due anni di libertà vigilata. Diversamente da quanto riportato da alcuni giornali, tutte e tre hanno affermato che la protesta era politica e non contro la chiesa, e che non intendevano offendere i fedeli. L’unica differenza, per Katia, è stata che la polizia l’aveva trascinata fuori dalla chiesa prima ancora che riuscisse a sfilare la chitarra e intonare la preghiera punk, e il suo avvocato è riuscito a dimostrarlo. Non si è trattato di tradimento, come non lo è stato quello di altre due componenti della band, scappate dalla Russia. Non si è trattato di tradimento, tanto più che le due donne incarcerate hanno festeggiato la sua liberazione, e se la volontà – politica – di una tale sentenza era di dividere la band, l’obiettivo sembra essere fallito.
Tuttavia, più di tutto è una scelta politica il modo in cui l'”affaire Pussy” è trattato dai media occidentali. Meno in Italia, divisa tra una visione del mondo filoamericana e una politica estera filorussa, dove i giornali tendono a riportare le notizie sulle Pussy senza esprimere troppe opinioni, in modo più marcato in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove qualcuno propone addirittura un boicottaggio della Russia.
I diritti delle donne, infatti, hanno in un certo senso soppiantato i diritti umani come strumento per denigrare paesi “nemici”, dalla Russia di Putin all’Iran di Ahmadinejad. Ma della condizione femminile nei nuovi stati nordafricani (peggiorata dopo le cosiddette primavere arabe), o nell’alleata Arabia Saudita, per citare due esempi, poco si parla.
Si tratta di una scelta politica di rappresentazione della realtà. Ma davvero si pensa che se un gruppo dal nome “Rivolta della vagina” avesse cantato «Ave Maria liberaci da Berlusconi» a San Giovanni in Laterano, a Roma (o “Padre Nostro, riprenditi Bush” negli States) non ci sarebbero state conseguenze legali e un’ondata di disprezzo da buona parte dell’opinione pubblica? Non è così.
Ancora di più, si tratta di una scelta ipocrita e pericolosa, una minaccia alla nostra percezione della realtà. Che questi paesi – un paese dove un candidato al Senato afferma che se una donna rimane incinta dopo uno stupro è volere di Dio, e pochi mesi prima un suo collega aveva affermato che in caso di stupro il corpo di una donna “può fare in modo di chiudere tutto”; un paese dove le violenze contro le donne sono in aumento perché manca una legislazione concreta e una visione di lungo termine – che tali paesi si ergano a difesa dei diritti delle donne non è così diverso dall’assurdità di una guerra per “esportare la democrazia”.