La parola Bosnia non è solo un toponimo, nome di un luogo divenuto negli ultimi due decenni tristemente noto per le vicende belliche, gli stupratori etnici, l’odio endemico. La parola Bosnia esprime soprattutto un luogo dell’immaginario, una cesura, una ferita -l’ultima- nel nostro Novecento.
Dire Bosnia è dire Sarajevo, la sua capitale, cuore d’Europa crivellato dai cecchini. Quello che fino a vent’anni fa era Berlino, oggi è Sarajevo: un simbolo. Simbolo di un’Europa spezzata, dimenticata, persino rimossa dalle coscienze “occidentali”, e simbolo di un futuro nuovo -eppure antico- che non si può disertare.
Anche a Sarajaevo -come un tempo a Berlino- c’è un muro. Un muro invisibile che divide la città tra serbi e musulmani: Istocno Sarajevo, la parte est, con le bandiere serbe lungo le strade. E la parte ovest, invero gran parte della città, con i minareti delle antiche moschee e i moezzin a chiamare per la preghiera.
Tutta la Bosnia è percorsa da questo invisibile muro. Da una parte i serbi, dall’altra i musulmani. Un muro tirato su nel 1995 a seguito dei cosiddetti “accordi di Dayton” che hanno spartito il territorio della Bosnia Erzegovina tra le due etnie fino ad allora in lotta. “Etnia” è parola guasta nei Balcani occidentali: sloveni, croati e serbi sono tutti della stessa etnia -slavi meridionali- e parlano tutti la stessa lingua. Anche i musulmani di Bosnia -i bosniacchi- sono slavi. A dividerli è stata la Storia e quindi la religione. Cattolici i croati, ortodossi i serbi e musulmani -eredità ottomana- in Bosnia, dove croati, serbi e musulmani hanno convissuto pacificamente per secoli.
Terra di tolleranza la Bosnia, che nel 1492 accolse gli ebrei sefarditi (sefarad in ebraico vuol dire Spagna) cacciati dal regno dei cattolicissimi Isabella d’Aragona e Ferdinando II di Castiglia. Essi in Bosnia portarono le arti e la cultura, e soprattutto i loro antichissimi libri che la Biblioteca di Sarajevo ha conservato fino al 1993.
Ai piedi della Biblioteca si apre la Bascarsjia, ovvero il bazar, la zona del mercato che come un dedalo si prolunga dalle moschee seicentesche fino alla cattedrale cattolica e poi alla città moderna con i suoi palazzoni ancora crivellati dalle pallottole serbe.
E in periferia un tunnel scavato nel 1994 sotto l’aeroporto: unica via d’uscita dalla città assediata. L’assedio serbo a Sarajevo durò tre anni, e terminò nel 1995.
Ma la Bosnia non è solo Sarajevo, è Banja Luka -”capitale” della parte serba, sede di diciassette moschee poi rase al suolo durante la guerra- è Travnik, è Jaice. Ed è Mostar. Quest’ultima prende il nome dalla parola slava “most” che significa “ponte”. Il suo bellissimo ponte ottomano congiungeva le due parti della città, quella musulmana e quella croata, ed è stato distrutto anch’esso durante la guerra. Ora quel ponte è stato ricostruito, con gli stessi materiali e le stesse tecniche ottomane, ma il “ponte” tra le culture ancora scrichhiola sotto il peso di una guerra in cui tutti erano della religione sbagliata.
Quella Bosnia che fu crogiuolo di culture forse oggi è perduta. Forse. Bandiere serbe, croate, turche ottomane -testimonianza di un retaggio storico non dimenticato dai musulmani di oggi- sono i segni della divisione. Sono i muri invisibili. Eppure qui, tra questi confini non scritti, giace il corpo vivo dell’Europa, della sua cultura millenaria: una sola molteplice cultura.
Un commento
Pingback: BOSNIA: Focus elezioni/6 – Chi è Milorad Dodik « EaST Journal