di Matteo Zola
L’oleodotto di Dick Cheney
Ambo sta per Albanian Macedonian Bulgarian Oil, entità registrata negli USA per costruire un oleodotto da 1,1 miliardi di dollari (noto anche come Trans-balcanico) che dovrebbe essere ultimato entro il 2011 e portare il petrolio dal Mar Caspio a un terminal in Georgia. Da lì verrebbe trasportato via nave attraverso il Mar Nero fino al porto bulgaro di Burgas per poi attraversare la Macedonia fino al porto albanese di Vlora. La guerra della Nato voluta da Bill Clinton contro la Jugoslavia era cruciale per l’accesso strategico a Vlora, dove il greggio deve essere imbarcato sulle petroliere dirette alle raffinerie statunitensi sulla West Coast.
Va detto che lo studio originale di fattibilità dell’Ambo, che risale al 1995, è stato condotto dalla Kellogg, Brown and Root, una sussidiaria dell’Halliburton, compagnia che si dice vicina all’ex vice presidente Dick Cheney. L’Ambo si accorda infatti con la griglia energetica perseguita da Cheney (e, prima di lui, da Richardson, ministro per l’Energia di Clinton) che dovrebbe assicurare agli Stati Uniti anche il petrolio delle ex-repubbliche sovietiche. Naturalmente la cosa può funzionare solo militarizzando massicciamente il “corridoio energetico” che parte dal Caspio e attraversa Caucaso e Balcani, e isolando le potenze confinanti, ovvero Russia e Iran.
Ecco il perché di Camp Bondsteel, la più grande base statunitense oltreoceano dai tempi del Vietnam, costruita dalla stessa compagnia che ha progettato l’oleodotto (Kellogg, Brown and Root) su 400 ettari di terra (agricola) vicino al confine con la Macedonia.
Uno stato mafioso nel cuore d’Europa
Secondo Hillary Clinton l’indipendenza del Kosovo è un trionfo della democrazia e «un successo della politica estera americana». Questo nuovo Stato “modello” riconosciuto inizialmente solo da Usa, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia -i paesi che hanno attivamente contribuito alla sua “liberazione”- secondo Vladimir Ovtchinky, criminologo ed ex capo degli uffici russi dell’Interpol durante gli anni ‘90, è «uno Stato mafioso nel cuore dell’Europa». Oggi ad aver riconosciuto questo “Stato mafioso” sono sessantanove Paesi dei centonovantadue membri delle Nazioni Unite. Tra quelli che non hanno riconosciuto il Kosovo ci sono membri eccellenti come la Russia e la Spagna, nonché molti Paesi europei, tra cui Romania, Slovacchia, Grecia, Georgia, Bosnia.
La Nato e l’oppio
Sul quotidiano russo Ogoniok , Ovtchinky racconta come i clan kosovari abbiano guadagnato il controllo del traffico di oppio e di eroina dall’Afghanistan e il Pakistan attraverso i Balcani fino all’Europa occidentale. Dalla fine degli anni Novanta parte dei proventi del narcotraffico (circa 750 milioni euro) sono stati utilizzati per comprare armi mentre il business del contrabbando si andava diversificando. Secondo l’Interpol e l’Europol, allargando i propri “interessi” anche al traffico di migranti e alla prostituzione su larga scala, le mafie kosovare hanno incassato non meno di 7,5 miliardi di euro solo fra il 1999 e il 2000.
La Rivista di geopolitica Limes, nel maggio 2008, ha dedicato prima di altri un approfondimento sul tema della mafia kosovara palesando l’instabilità del Paese e mostrando altresì come il territorio sia diviso in sfere d’influenza controllate dalle varie forze della Nato Kfor. Esiste un rapporto diretto tra clan mafiosi ed comando Nato? Remano nella stessa direzione, ciò è evidente, e hanno interessi economici comuni. In nome dell’autodeterminazione dei popoli l’establishment americano ha supportato, anzi inventato, l’indipendenza kosovara ma il vero scopo, si è visto, è un altro.
Un pericoloso precedente
La Serbia parla di “pericoloso precedente“, e può essere vero. Non tanto per l’impulso che i separatisti di tutto il mondo potrebbero trarre da questo esempio, ma per il modo disinvolto col quale si gioca coi confini degli stati. E i giocatori principali, in questo risiko energetico, sono ancora Stati Uniti e Russia. Nel mezzo l’Europa, terra di conquista. La pace nel vecchio continente è continuamente messa a rischio. E l’Unione Europea resta la sola, fragile, speranza.
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