Il nome di Tristan Tzara nella cultura del Novecento non ha bisogno di presentazioni. È legato in generale ai movimenti d’avanguardia più radicali e libertari, e più in particolare al Dadaismo, che il poeta d’origine romena ha contribuito a lanciare a Zurigo nel 1916 insieme ad altri artisti, prima di arrivare a Parigi ed essere accolto come un messia da André Breton. Da allora in poi Tristan Tzara segnerà una tappa unica nella storia del rinnovamento artistico e culturale, esercitando un’enorme influenza non solo in Romania ma anche in Francia.
Per Tzara la poesia è una forma vivente di espressione. Il poeta non può limitarsi a scrivere il suo testo e a darlo alle stampe, ma dovrà declamarlo in pubblico per meglio assumere la responsabilità del suo gesto e per testimoniare di persona il vivo prodursi della poesia. Attorno a questo evento spettacolare, che coglie il momento sorgivo della parola poetica, Tristan Tzara ha organizzato e animato, con le sue performance, tutte le serate Dada.
Al di là del nichilismo anarcoide del movimento Dada, Tristan Tzara ha avuto il coraggio di andare fino in fondo alle proprie teorie e ha aperto una nuova strada nelle arti. Ha saputo mettere in evidenza il fatto che il linguaggio vivo della poesia è un fenomeno non solo scritto ma soprattutto parlato: «Il pensiero si fa nella bocca», diceva.
Per Tzara si trattava di testimoniare che la poesia è una forza vivente e che la convenzione linguistica non è altro che un veicolo puramente occasionale. Il linguaggio della poesia così si spogliava di ogni potere di significazione normativa e si articolava in una serie di ripetizioni sillabiche, di fonemi, di suoni disparati.
Per giustificare quest’opera di destrutturazione linguistica, Tzara si appellava alla gioia, una gioia che comporta la distruzione, che travolge i principi del ragionamento logico e del linguaggio. Si trattava per lui di sostituire al vecchio modo di fare poesia una forma nuova di linguaggio che si spogliasse della volontà di comunicare, permettendo così all’uomo l’apertura della via del sogno, lasciando la parola al desiderio e alla pluralità del senso.
Samuel Rosenstock – è questo il nome all’anagrafe romena di Tristan Tzara –, subito dopo il liceo, insieme a Adrian Maniu, a Ion Vinea e al futuro architetto e pittore Marcel Iancu, fondò nel 1912 la rivista «Simbolul», firmando alcune poesie con lo pseudonimo di Samyro. Nel 1913 il giovane poeta va alla ricerca di un altro pseudonimo esitando tra Tristan Ruia e Hamlet. Nel periodo di Bucarest, insomma, il giovane poeta cercava letteralmente di farsi un nome, ossia cercava di creare uno spazio nuovo, uno spazio libero in grado di preparare l’evento della nascita di una nuova «persona poetica».
Tra il 1913 e il 1915 apparvero altre poesie su riviste come «Chemarea» e «Contimporanul»che verranno poi raccolte nel 1934 in volume da Saşa Pană e pubblicate con il titolo di Primele poeme ale lui Tristan Tzara. Queste prime poesie scritte in romeno sono state considerate da Tzara non solo un «mezzo di espressione», ma soprattutto una vera e propria «attività dello spirito», l’effetto cioè dello scatenamento di una «fede simil-mistica».
Quando l’avanguardista Saşa Pană propose a Tzara di intitolare la raccolta di versi romeni Poesie prima di Dada, l’autore contestò questo titolo perché «lascerebbe supporre – scrive – una sorta di rottura nella mia persona poetica, se così mi posso esprimere, dovuta a qualcosa che si sarebbe prodotto al di fuori di me (lo scatenamento di una fede simil-mistica per così dire: dada), che, a dire il vero, non è mai esistita, perché ci fu continuità attraverso contraccolpi più o meno violenti e determinanti, se si vuole, ma comunque continuità e compenetrazione, legate al massimo grado a una necessità latente».
È come dire che il programma di riforma poetica di Tristan Tzara a Bucarest era solo in uno stato di necessità latente, cioè in uno stato di pura potenzialità che annunciava solo virtualmente quello che sarà poi riconosciuto come il segno caratteristico di Dada. In tal senso, queste prime poesie sono certamente Avant Dada, ma per Tzara questi componimenti avevano un valore e un carattere retroattivo, rispondevano cioè a un’esigenza soggettiva. Tant’è vero che nel volume di poesie francesi De nos oiseaux pubblicato nel 1923, Tzara si era già «auto-tradotto» alcune di queste sue prime poesie romene.
Ciò che possiamo notare in queste poesie Avant Dada di Tzara è una sorta di distacco ironico dal lirismo elegiaco tipico dell’espressione poetica nazionale. Anche se ancora i temi sono legati a un sentimentalismo tardo simbolista, la dimensione predadaista è riscontrabile nell’associazione da parte del poeta di «immagini disparate che sorprendono la coscienza» (G. Călinescu). Da questo punto di vista, non si può dire che Tzara in Romania avesse rotto totalmente con le immagini e i temi della lirica tradizionale, ma che, al contrario, si era messo a dialogare polemizzando con essi, cioè li aveva problematizzati e contraddetti a partire da un contesto decisamente allusivo. Di fatto, Tzara attua una sorta di demistificazione delle forme poetiche tradizionali, avvia una profanazione dei cliché tardo simbolisti, denuncia tutti gli artifici retorici che si sono accumulati e irrigiditi nella forma della poesia del suo tempo.
Con queste prime poesie in lingua romena, Tzara ha contribuito in maniera decisiva alla liberazione dell’espressione poetica dalle costrizioni prosodiche, logiche e sintattiche tipiche dei moduli espressivi classicisti. Ha rivoluzionato il linguaggio della poesia attraverso un uso metodico delle inversioni sintattiche, delle costruzioni ellittiche, introducendo nel suo discorso associazioni di immagini fino ad allora inedite in Romania. Ha giocato con l’ironia e ha riabilitato il linguaggio della quotidianità e del banale, come Gozzano e Corazzini in Italia, mantenendo il discorso poetico a un livello allegoricamente allusivo rispetto al sistema delle strutture poetiche tradizionali.
Avvalendosi del magistero delle Pagine Bizzarre di Urmuz, Tristan Tzara ha impiegato la parodia creando una successione di effetti poetici in cui il soggetto offre una precisa mappa delle sue inquietudini e dei suoi desideri, che vanno dal piano reale della cronaca sentimentale a quello fantastico. Inoltre ha usato, come Urmuz, i nomi propri provenienti dalla realtà della memoria storica e culturale per restituire l’effetto della fotografia o del ritratto pittorico alternando il vago e il definito, la solennità ripetitiva e il risvolto umoristico in un gioco anamorfico tra citazioni letterarie e pittoriche.
La poesia di Tzara in lingua romena si giova di vari livelli interpretativi e si muove su molteplici piani di significato difficilmente distinguibili tra di loro. Se ad un primo livello di lettura il suo discorso sembra riferirsi al piano della realtà immediata, ad un tratto, quasi impercettibilmente, esso sembra aprirsi verso altri piani più interiorizzati che vanno dalla confessione lirica luttuosa all’appello diretto al destinatario della poesia. Ciò crea un «effetto semantico» che permette di intravedere all’interno della stessa poesia, un’altra realtà fatta di squarci e di illuminazioni improvvise.
In conclusione, il lavoro di traduzione di Irma Carannante di queste poesie di Tzara Avant Dada è stato difficile e delicato, soprattutto per la volontà di conservare il tono programmaticamente «antipoetico» di Tzara, non cedendo così alla tentazione di abbellirlo o di renderlo artificiosamente gradevole in italiano. Infatti, questi componimenti giovanili di Tzara mantengono anche in traduzione un andamento discorsivo più vicino alla prosa che alla musicalità tipica della poesia. La traduttrice, al suo esordio editoriale, ha tenuto in debito conto la pregevole traduzione di alcune poesie romene di Tzara firmate da Marco Cugno e contenute nella ormai classica antologia Poesia romena d’avanguardia, a cura di M. Cugno e Marin Mincu, Milano, Feltrinelli Economica, 1980.
È anche vero che tradurre significa far transitare una lingua in un’altra lingua, aprire dei varchi nelle parole per farle passare da un testo a un altro testo. Ma non è solo questo. Tradurre la poesia di Tzara implica insieme sia un atto di libertà che di responsabilità. Se da un lato la poesia di Tzara sembra illusoriamente liberare il traduttore, allo stesso tempo lo inchioda alla responsabilità della parola. E sulla parola non si può esigere alcun diritto di proprietà, perché la parola della poesia indica semplicemente il luogo da cui proviene. Al di là del legittimo rigore, qualsiasi opera di traduzione ha più a che fare con il legame musaico che con la perizia filologica.
La poesia di Tzara offre ancora oggi ai giovani di talento uno specchio della vita. Spetterà a loro, con instancabile lavoro e grande passione, saper riconquistare attivamente l’eredità lasciata da coloro che li hanno preceduti. E ciò vale non solo per la letteratura, ma soprattutto per la vita.
Orizzonti culturali italo-romeni (n. 6, giugno 2012, anno II)