La storia recente della Bosnia Erzegovina non è certo immune da crisi politiche e cambi di maggioranza. Tuttavia, la rottura dell’alleanza SDA-SDP lascerà conseguenze di medio-lungo periodo sul quadro istituzionale, sul sistema di partiti e sugli equilibri tra le diverse comunità nazionali. E influenzerà la relazione tra cittadini e politica in Bosnia-Erzegovina (almeno per ora, non certo in positivo). Le novità non sono marginali. C’è un partito che passa all’opposizione dopo 22 anni trascorsi ininterrottamente al potere (SDA); c’è un nuovo movimento che si candida a protagonista della scena (SBB); c’è una forza consacratasi come arbitro-manovratore dell’equilibrio politico, a scapito dei suoi valori ideologico-morali e, forse, della sua credibilità (SDP). Qui di seguito, proponiamo alcuni spunti di riflessione sui principali soggetti protagonisti della crisi.
SBB al governo: lo “sdoganamento” di Radončić
Si scrive SBB, ovvero Alleanza per il Futuro Migliore della BiH. Si legge Fahrudin Radončić, fondatore (nel 2009) e padrone del partito. Magnate dell’editoria (possiede il quotidiano sarajevese “Dnevni Avaz”, uno dei più letti in BiH) viene definito quasi ossessivamente, e con ragione, come il “Berlusconi di Bosnia”. Per restare alla tradizione politica bosniaca, non sfugge una certa analogia con la figura di Fikret “Babo” Abdić. Radončić è infatti un manager disinvolto e spregiudicato, capace di sparigliare le cerchie di potere, le appartenenze politiche ed etniche predeterminate, tessere nuove reti di fedeltà e alleanze (solo in apparenza innaturali e contraddittorie). Proprio come il suo predecessore “Babo”. Eppure Abdić era un provinciale, con un radicamento territoriale ristretto alla Bosnia nordoccidentale. Gli interessi economici di Radončić appaiono invece ben più estesi e megalomani. Il suo bastione è Sarajevo, il cui paesaggio urbano è oggi dominato (visivamente e simbolicamente) dalla Avaz Tower, il grattacielo da lui costruito e sede del suo giornale. Non vanno dimenticati gli ottimi rapporti di Radončić con il clero islamico, in primis con il Reis el Ulema Mustafa Ćerić. Soprattutto, vanno ricordati i pesanti sospetti che da anni circolano in Bosnia sull’origine delle fortune di Radončić e sui suoi presunti legami con soggetti criminali. Dopo il patto SBB-SDP, media e politici avversari di Radoncic gli hanno chiesto spiegazioni sui suoi rapporti con Naser Keljmendi, cittadino bosniaco inserito nella “lista nera” USA dei narco-boss europei. Radončić ha risposto minimizzando, o rilanciando contro-accuse all’SDA di annoverare, a loro volta, soggetti della lista nera USA tra i propri collaboratori. Gli stessi media hanno ripreso i numerosi scontri verbali consumatisi tra il 2006 e il 2010 a mezzo stampa o TV (a cui seguirono diverse rispettive denunce per calunnia) tra Radončić e il leader dell’SDP Zlatko Lagumdžija. Quest’ultimo gli aveva dato più volte del “mafioso”, ricevendo in cambio, dalle pagine di Avaz, accuse di islamofobia anti-bosgnacca e stalinismo. Ora le rispettive posizioni sono evidentemente cambiate. E l’SBB si candida a soppiantare l’SDA come principale partito “bosgnacco” del paese.
SDP: etno-pragmatismo o etno-stalinismo?
Il principale “regista” della crisi politica è Zlatko Lagumdžija, da 15 anni leader dell’SDP. È stato lui a volere e dirigere in prima persona il siluramento dell’SDA, probabilmente puntando tutto sullo smembramento degli ex-alleati una volta esclusi dal governo. Per farlo, ha però dovuto “sdoganare” Radončić e scendere a patti con i nazionalisti croati. È una mossa rischiosa, che finora gli è costata un certo discredito presso simpatizzanti, media, intellettuali e settori della società civile (molti di questi tradizionalmente vicini all’SDP). L’operazione è vista da questi ambienti come l’esempio definitivo della deriva personalistica e autocratica della gestione Lagumdžija: una sorta di “etno-stalinismo”, una singolare fusione di autoritarismo, equilibri etno-nazionali nella spartizione del potere, e nella scelta opportunista e discrezionale di alleati e nemici. “Poltrone e matematica”, titolava uno sprezzante editoriale di Radio Slobodna Evropa, che non si capacitava di come un partito (formalmente) socialdemocratico e multietnico potesse allearsi da un giorno all’altro con i cosiddetti “etno-clero-capitalisti” di Radoncic. Eppure Lagumdžija & co. rivendicano la loro strategia, presentandola come una svolta pragmatica necessaria, l’unico modo per evitare i continui veti dell’SDA e bypassare le sue immense rendite di potere, così da avanzare verso le riforme del paese. Per ora, il punto forte di Lagumdžija è l’assenza di critiche all’interno del partito: finora tutti hanno appoggiato l’operazione, compreso quel Željko Komšić che tre mesi fa, con le sue provocatorie dimissioni dal partito (poi però ritirate) sembrò candidarsi a leader della dissidenza interna. Ma è indubbio che il risentimento anti-Lagumdžija dentro l’SDP è sensibilmente cresciuto in seguito all’allenza con Radončić. Pertanto non c’è da scommettere che questa unità duri a lungo.
SDA alla prova-opposizione, dopo 22 anni di potere
Se la nuova alleanza tessuta dal SDP metterà insieme i numeri per governare, si tratterà della prima volta nella storia della Bosnia democratica (dalle prime elezioni libere, nel 1990) in cui l’SDA si trova all’opposizione, sia a livello nazionale, sia a quello della Federazione di BiH. I costi dell’operazione non sono solo politici. L’uscita dal governo, con la perdita di tutti i fondi pubblici che ne derivano, potrebbe costare all’SDA il licenziamento di circa 3.000 funzionari e dipendenti, e una conseguente fuga di quadri ed attivisti verso lidi più prosperi (leggi SBB di Radončić). Per rendere l’idea, l’ SDA è una sorta di “Democrazia Cristiana” in chiave musulmana, ispirata ad un modello di partito conservatore classico, ben radicato territorialmente – e soprattutto in ambienti rurali -, con svariate correnti interne, una leadership più o meno costante da anni ed un vasto apparato burocratico (e spesso coincidente con le istituzioni stesse, vista la lunga permanenza al potere). Non è un caso che, a livello internazionale, SDA sia affiliato al PPE. L’SBB appare invece un partito de-ideologizzato, personalistico e dall’organizzazione “leggera” (per ora).
L’esclusione dalla maggioranza potrebbe riaccendere lo scontro interno all’SDA tra l’ala moderata che si riconosce in Sulejman Tihić, attuale presidente del partito, e quella conservatrice capeggiata da Bakir Izetbegović, membro della Presidenza del paese. In questo caso, i conservatori partirebbero probabilmente favoriti, avendo buon gioco ad imputare la responsabilita’ della crisi alla linea “dialoghista” mantenuta in questi anni da Tihić, il più aperto all’alleanza con l’SDP.
Per ora, la crisi di governo sembra aver riavvicinato l’SDA allo SBiH, il partito di Haris Silajdžić tradizionale avversario nel campo nazionalista bosgnacco. Le due forze hanno firmato un’alleanza in vista delle elezioni amministrative di ottobre (sebbene limitata alla Repubblica Srpska ed alcuni comuni della FBiH) ed è possibile che in futuro facciano fronte comune contro l’SBB di Radončić, che minaccia la loro egemonia.
I cittadini, ancora sconfitti
Nei confronti di questa crisi, la reazione più spontanea è quella della confusione e dell’incomprensione per questo caos di retroscena, sotterfugi e regole (non) scritte. Ancora una volta, si manifestano due aspetti costanti del quadro politico bosniaco: il primo è la macchinosità del sistema istituzionale, un intricato insieme di maggioranze incrociate e veti potenziali, il tutto sotto l’onnipresente chiave etnonazionale di ripartizione del potere. Va detto che i cambi di maggioranza e il rimpasto dei ministri sono procedure più che legittime in una democrazia parlamentare. A patto, però, di essere regolamentate da norme chiare e trasparenti. Invece tutto è lasciato alla discrezionalità, a ricatti e condizionamenti extra-istituzionali. Il secondo aspetto è il costante “deragliamento ideologico” del sistema politico. L’esempio più evidente è quello del socialdemocratico SDP, che firma l’alleanza con gli “etno-clero-capitalisti” di SBB e il giorno seguente invita a entrare in coalizione nientemeno che Naša Stranka (“Il nostro partito”), il partito più radicalmente civico e anti-nazionalista esistente oggi in Bosnia. Che, infatti, ha rifiutato senza pensarci troppo. Lo sbandamento di posizioni ideologiche coinvolge anche la stampa. È un po’ straniante osservare l’evoluzione degli orientamenti dei due principali quotidiani di Sarajevo, “Oslobođenje” e “Dnevni Avaz”. Il primo, che fu prima organo della Lega dei Comunisti, poi baluardo della Bosnia plurietnica durante il conflitto e infine in orbita SDP nel periodo post-Dayton, in questi giorni si mostra vicino alle posizioni dell’SDA e assai critico verso l’asse SDP-SBB. Invece Dnevni Avaz, che per anni ha tirato bordate contro l’SDP, adesso gli tesse quotidianamente lodi (per ovvie ragioni di supporto al proprio editore).
La crisi politica in corso non fa che alimentare la frustrazione dei cittadini della Bosnia-Erzegovina, che guardano alla politica con uno sconforto crescente e sempre più tangibile. Ma questo disappunto non riesce a trasformarsi in un una spontanea reazione civica contro la corruzione e l’irresponsabilità dell’attuale classe politica. Così le conseguenze di questa crisi e le imminenti elezioni amministrative rischiano di ratificare ancora una volta lo status quo, invece di sanzionarlo.
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