Il processo d’integrazione europea dei Balcani occidentali continua a rilento e con enormi difficoltà. Nei rapporti sui passi in avanti realizzati nell’ultimo anno da sette paesi della regione, pubblicati il 9 novembre dalla Commissione europea, l’espressione più utilizzata è stata nella maggior parte dei casi “progressi limitati”. La Serbia rimane indietro per quanto riguarda la riforma del sistema giudiziario e dell’amministrazione pubblica. Per non parlare della necessità di proteggere le minoranze e di iniziare un vero dialogo con il Kosovo. La Bosnia-Erzegovina è criticata per l’attuale impasse istituzionale e per una Costituzione che non è ancora in linea con la Convenzione europea per i diritti dell’uomo. L’Albania continua a dimostrare uno scarso funzionamento delle istituzioni democratiche, a causa dello stallo parlamentare che dura dalle elezioni del giugno 2009, e deve combattere una corruzione largamente diffusa. Il Kosovo, dal canto suo, non ha fatto molti progressi verso l’istituzione di un’economia di mercato funzionante e il rafforzamento dello stato di diritto.
Le uniche note positive riguardano il Montenegro, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) e la Croazia. Ma si tratta di magre consolazioni. Nel primo caso, la Commissione europea ha deciso di dare il proprio via libera alla concessione dello status di paese candidato all’adesione all’Ue, sottolineando allo stesso tempo che Podgorica non è pronta a iniziare ufficialmente le trattative con Bruxelles. Ciò significa che il dossier passerà ora all’esame del Consiglio Ue, che riunisce i ministri degli Esteri dei Ventisette, i quali dovranno anche loro dare il proprio via libera alla concessione dello status di paese candidato. Dopodiché, la domanda del Montenegro passerà nuovamente all’esame della Commissione europea, che continuerà a monitorare Podgorica fino a quando non deciderà che è pronta a iniziare i negoziati di adesione. Quando darà il proprio via libera, il dossier passerà nuovamente nelle mani del Consiglio, per un’ulteriore approvazione all’unanimità da parte dei Ventisette stati membri. Soltanto a quel punto si avvieranno le trattative sui famosi trentacinque capitoli negoziali, che coprono tutto l’acquis comunitario che i paesi che aspirano a entrare nell’Ue “devono recepire pienamente e senza lacune”, come ha spiegato a più riprese il commissario europeo all’Allargamento, Stefan Fuele.
E qui si arriva allo stadio in cui è impantanata da ormai cinque anni la Croazia. I negoziati con Zagabria sono iniziati nell’ottobre del 2005 e, secondo le speranze croate, doveva trattarsi di un percorso veloce, in linea con quanto successo con altri paesi dell’Europa orientale. Tuttavia, per un motivo o per un altro, in ultimo la controversia con la Slovenia sulla Baia di Pirano, le trattative sono andate a rilento e rimangono aperte su dieci capitoli negoziali, di cui tre altamente sensibili (concorrenza, giustizia e politica estera). Nel suo rapporto sui progressi fatti dal paese la Commissione europea non si è voluta sbilanciare su una possibile data di conclusione nei negoziati, poiché, afferma, “dipende esclusivamente dai progressi dimostrati dalla Croazia”, in particolare nella lotta contro la corruzione, nel rafforzamento dell’indipendenza della magistratura e nella protezione delle minoranze. Zagabria auspica di poter concludere le trattative con Bruxelles nella prima metà del 2011. In seguito, tutti i paesi dell’Ue dovranno ratificare il trattato di adesione, un processo che può durare anche più di anno. Insomma, nella migliore delle ipotesi, la Croazia potrebbe diventare il ventottesimo membro dell’Unione da metà 2012, ma col passare del tempo è sempre più probabile che l’anno da ricordare nei libri di storia croati sarà piuttosto il 2013.
Ad essere bloccata nei mille meandri della procedura comunitaria è anche la Fyrom, ma al passaggio precedente a quello dove si trova la Croazia. Nell’ottobre del 2005 Skopje ha ottenuto lo status di paese candidato all’adesione all’Ue. Ben quattro anni dopo, la Commissione europea ha raccomandato l’avvio ufficiale dei negoziati di adesione, un parere che da allora è rimasto bloccato al Consiglio. Il motivo è da ricercare nel veto posto da un solo stato membro, la Grecia, a causa della disputa sul nome “Repubblica di Macedonia”, non accettato dalle autorità elleniche. L’esecutivo comunitario nella sua ultima relazione ha ribadito che il paese è pronto a iniziare le trattative di adesione, grazie ai progressi compiuti nella riforma del parlamento, della polizia, della magistratura e della pubblica amministrazione. Ma si tratta di una piccola consolazione per Skopje, dato che anni di negoziati con Atene non hanno ancora portato i loro frutti. Con il nome “Repubblica del Nord Macedonia” sembrava si fosse arrivati a una soluzione accettabile per entrambe le parti, ma da alcuni mesi le trattative si sono arenate su altre questioni, come la denominazione della cittadinanza “macedone” sui passaporti, o per il timore che i referendum nei due paesi boccino definitivamente l’idea.
Nel presentare i rapporti sui paesi balcanici il commissario Fuele ha aperto il proprio discorso affermando che “il processo di allargamento rende più sicura e forte l’Europa”, ma che l’Ue aprirà di nuovo le proprie porte solamente quando “un candidato avrà soddisfatto tutti i requisiti economici e politici”. Nessuno vuole mettere in dubbio il ruolo tecnico della Commissione nel giudicare il grado di preparazione degli aspiranti membri dell’Unione. Tuttavia, l’estrema lunghezza del processo di adesione inizia a far sorgere qualche dubbio. I Balcani occidentali sono davvero i ben accetti in Europa? Allo stato attuale, solo Zagabria può aspirare a entrare nei prossimi due anni. Per gli altri, si dovrà aspettare il prossimo decennio, se non oltre. Lo dimostra per l’appunto il caso croato. E’ senza dubbio il paese più avanzato tra i candidati all’ingresso nell’Ue, eppure tra la domanda di adesione e il momento dell’entrata nel club europeo passeranno circa dieci anni. E la lentezza del processo d’integrazione inizia a far sentire i propri effetti negativi fra i cittadini balcanici, la cui fiducia nei confronti di Bruxelles è in costante calo. Un sondaggio condotto la scorsa estate ha rivelato che solamente un croato su quattro è convinto che l’entrata nell’Unione avrà delle ricadute positive. Nella Fyrom la fiducia rimane alta, al 60 per cento, ma con una diminuzione di sei punti percentuali rispetto all’inchiesta effettuata pochi mesi prima, nell’autunno del 2009.
Certo si può continuare a ripetere che il percorso d’integrazione europea “è completamente nelle mani dei candidati”, come fanno in ogni occasione i leader delle istituzioni Ue, in primis il presidente della Commissione José Manuel Barroso e il commissario Fuele. La responsabilità della lentezza del processo di adesione, tuttavia, è da imputare in parte alla stessa Unione europea. Dopo l’entrata nel 2007 di Romania e Bulgaria, considerata da molti prematura, Bruxelles sembra aver deciso di tirare il freno a mano. In primo luogo, più nessuna adesione di gruppo, nello stile dei dieci paesi dell’Est entrati nel 2004. In secondo luogo, una procedura di allargamento con più passaggi e dall’esito incerto. Alcuni requisiti compresi nei trentacinque capitoli negoziali, come “il rafforzamento dello stato di diritto”, sono difficilmente misurabili e possono essere utilizzati di volta in volta per ritardare il processo, a seconda degli interessi politici degli stati membri (ogni capitolo negoziale, per essere aperto, ha bisogno dell’unanimità dei Ventisette).
Un altro esempio è “la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata”. Si tratta di un punto senz’altro di grande importanza, ma che non permetterebbe l’ingresso nell’Ue neanche a molti attuali stati membri. In una recente intervista il premier belga, Yves Leterme, ci aveva spiegato che “il processo di adesione all’Unione europea è come una regata”: ogni paese è indipendente dagli altri, non si può prevedere chi arriverà prima e chi dopo, ma il traguardo è lo stesso per tutti. C’è da augurarsi che sia davvero così, e che la linea di arrivo non venga allontanata nel corso della gara.
Ma i Balcani hanno davvero l’intenzione di essere vicino alla Ue? E ancora: converrà loro compiere questo passo? I Paesi che si sono mossi in questa direzione, la Romania ad esempio, l’hanno pagata cara. I motivi sono molteplici, le cause anche. Per quanto riguarda la Romania, l’attuale sua presenza nell’Ue (nel 2014 le piomberà addosso l’euro, e allora saran dolori peggiori degli attuali) è strettamente legata al rapporto di questo Paese con le istituzione politiche ed economiche europee e, guarda caso, con la caduta di Ceausescu. Due su tutte: Banca Mondiale e FMI. Possibile che l’Europa sia diventata un dogma? Se qualcuno desidera – il direttore Zola in testa – posso offrire qualche spunto di riflessione largamente trascurato dall’ufficialità. Cordiali saluti a tutti. lb
Luca
i tuoi spunti attendono solo di esser pubblicati, son sempre ben accetti. Come sai, io l’Europa intesa come luogo metafisico (e non solo fisico) ce l’ho fissa in testa, ma se hai una serie di riflessioni da proporre a me e ai lettori, scrivi un bell’editoriale. Vediamo di fare un po’ di movimento in questo east journal! Ah, e non sono direttore.
Matt
Ciao Luca,
Cosa intendi per l’Europa che diventa un dogma?
Sulla Romania, non credi che se non fosse entrata nell’Ue la situazione sarebbe ancora peggiore?
Il 2014 poi mi sembra un po’ troppo vicino come orizzonte. Nell’ultimo rapporto la Commissione ha detto che la Romania è lontana dal soddisfare tutti i criteri comunitari per adottare la moneta unica. Non si sa neanche ancora quando entrerà nell’ERM II!
Mario