SERBIA: A Novi Pazar gli studenti scendono in piazza sfidando gli stereotipi

Sono ormai quasi sei mesi che studenti e cittadini serbi protestano contro il governo autoritario di Aleksandar Vučić, contro la corruzione che appesta l’intera classe dirigente e per ottenere risposte sull’incidente avvenuto alla stazione di Novi Sad il 1° novembre 2024, in cui sono morte 16 persone. Il 12 aprile sono scesi in piazza gli studenti di Novi Pazar che, uniti da una causa comune, hanno superato le divisioni etniche e religiose.

Fino al Sangiaccato

Il crollo della tettoia della stazione di Novi Sad, avvenuto il 1° novembre scorso e che ha causato la morte di 16 persone, è stato la miccia che ha innescato una serie di proteste studentesche che ancora oggi, a distanza di quasi sei mesi, non sembra intenzionata a fermarsi. Il messaggio degli studenti serbi è chiaro: fino a che non otterranno delle risposte e il governo non cambierà le cose, le proteste continueranno.

Sono ormai numerosissime le città che hanno organizzato le cosiddette blokade. Lo scorso 12 aprile è stato di nuovo il turno di Novi Pazar, la principale città del Sangiaccato, regione storica a maggioranza musulmana a cavallo tra Serbia e Montenegro e che si estende dal confine della Bosnia Erzegovina a quello del Kosovo.

Indetta dal collettivo Studenti u Blokadi tramite un post su Instagram, la protesta di Novi Pazar si è fin da subito presentata come un grido di libertà e di necessità di cambiamento da parte dei cittadini. Lo slogan era “La libertà governa la città – le rose sono rosse, la città si prepara, il 12 aprile ci sarà la riforma del sistema” (Sloboda vlada Čaršijom – ruže su crvene, čaršija se sprema, 12. aprila sledi reforma sistema),

La partecipazione, come in tutte le precedenti blokade, è stata molto ampia: già dalla sera di venerdì 11 aprile sono arrivati per dare il proprio sostegno studenti e cittadini da numerose altre città del paese – chi in bicicletta, chi perfino a piedi – tutti accolti caldamente dagli studenti di Novi Pazar nella piazza principale.

Il giorno della blokada

Il giorno successivo il ritrovo era previsto alle 11 del mattino davanti all’Università Statale di Novi Pazar (DUNP). Alle 11:52 si sono tenuti 17 minuti di silenzio: uno per ogni vittima dell’incidente alla stazione di Novi Sad e uno per Ernad Bakan, studente originario di Novi Pazar, investito e ucciso sulle strisce pedonali a Belgrado nel 2019.

Contemporaneamente, il governo di Vučić aveva organizzato una contromanifestazione a Belgrado. Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno, vi avrebbero partecipato circa 145 mila persone, rappresentando così una delle più grandi manifestazioni filogovernative degli ultimi tempi. Tuttavia, non sarebbe la prima volta in cui i numeri vengono gonfiati ad hoc per sostenere una narrazione più favorevole alle autorità.

Proprio per evitare che i sostenitori dell’SNS – il partito del presidente Vučić – raggiungessero la capitale, un centinaio di studenti di Novi Pazar ha bloccato la strada per impedire agli autobus diretti a Belgrado di passare. La folla è stata successivamente dispersa dalla polizia e, secondo gli studenti, ci sarebbe stato un ferito nello scontro.

In seguito a quanto accaduto, anche la stazione di polizia di Novi Pazar è stata presa di mira dai manifestanti: in molti hanno rovesciato della vernice rossa, simbolo della violenza delle forze di polizia e del sangue versato dai manifestanti negli scontri, e intonato cori quali “Le vostre mani sono insanguinate”, “Siamo noi a pagarvi” e “Tradimento”, segno di un profondo malcontento e di una totale sfiducia nei confronti di chi dovrebbe proteggere i cittadini.

Alle 19:00 si sono ripetuti i 17 minuti di silenzio e la protesta si è conclusa, come da programma, alle 23:00.

Uniti dal coraggio civile

Ciò che ha colpito maggiormente della manifestazione di Novi Pazar sono state le foto circolate sulle principali testate locali e internazionali e sui social media, accompagnate da numerosi messaggi di sostegno. C’è chi si è presentato alla protesta vestito da Pikachu, ormai simbolo delle proteste antigovernative in Turchia; una coppia fresca di matrimonio ancora in abiti da cerimonia; ragazze musulmane che portano alta la bandiera serba, ragazzi serbi che portano alta quella del Sangiaccato.

Le proteste in Serbia sono state spesso additate come nazionaliste o filorusse, ma a Novi Pazar le nuove generazioni hanno dimostrato di rifiutare la retorica della divisione etnica o religiosa, troppo spesso usata per semplificare la complessità dei Balcani. Questo tipo di narrazione viene alimentato da chi è al potere: una popolazione coesa e capace di organizzarsi in modo collettivo è più difficile da tenere sotto controllo. Non è un caso se lo stesso Vučić, e con lui Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska – l’entità a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina – continuano a fare leva su queste fratture interne.

Con la stessa logica si è innestata anche la narrazione secondo cui le proteste sarebbero antieuropeiste, giustificando così l’indifferenza di molti vertici europei, che continuano a dialogare con il presidente serbo sul percorso di integrazione europea del paese. Anche in questo caso, gli studenti serbi hanno smentito tutti: 80 di loro sono partiti in bicicletta in direzione Strasburgo per cercare solidarietà e per essere finalmente ascoltati.

Come ha dichiarato la studentessa Emina Paučinac in un’intervista: “Questa è più di una protesta, è una lezione di coraggio civile. Grazie per averci insegnato questa importante lezione – che non siamo mai troppo giovani o troppo deboli per apportare un cambiamento”.

Difficile non pensare all’attivista Svetlana Broz, venuta a mancare poche settimane fa, che ha dedicato la sua vita a promuovere la solidarietà interetnica e il coraggio civile nella regione perché ha sempre creduto nella capacità di resistere e opporsi a chi abusa del proprio potere. Forse dovremmo ringraziare anche noi gli studenti serbi che, uniti in un’unica voce e calpestando gli stereotipi, stanno tenendo viva un’eredità che non riguarda solo i Balcani, ma tutti noi.

Foto: Uroš Arsić Lunja / Instagram 

Chi è Martina Marazzini

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