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Il ritorno della Grande Romania nell’identitarismo antieuropeo

Le presidenziali 2.0 in Romania e le legislative in Moldavia completeranno un intenso periodo elettorale, che sta facendo emergere tutte le criticità e le tensioni latenti dei due paesi danubiani. Intanto lo scetticismo anti-europeo fomenta il ritorno ad un identitarismo di matrice etnico-culturale, aprendo scenari quantomai incerti.

Il 2024-2025 ha portato la Grande Romania (România Mare) sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. In ottobre in Moldavia il referendum sull’UE e le elezioni presidenziali hanno definito (ancora una volta) la Bessarabia come una “regione contesa tra Russia e Occidente”, titolo di cui si fa vanto da almeno 200 anni. E un mese dopo a Bucarest le elezioni presidenziali romene, anch’esse hanno aperto una fase politica dai tratti tragicomici di cui Calin Georgescu e la Corte costituzionale sono stati i principali protagonisti. 

In entrambi i casi a sorprendere sono stati i risultati delle formazioni antisistema, quelle che, nella definizione classica proposta da Giovanni Sartori, “minano la leggittimità del regime al quale si oppongono”. In Moldavia parliamo di Alexander Stoianoglu, sostenuto dal Partito Socialista di Igor Dodon; e in Romania di Calin Georgescu, candidato indipendente, a cui ha fatto seguito l’AUR (Alleanza per l’unione dei romeni) di Gheorge Simion. Dietro ad essi il sostegno, più o meno diretto, della Russia di Putin, capofila della sempre più ampia internazionale rossobruna.  

La presenza russa nella regione non sorprende. Per Mosca gli ex principati danubiani sono un balcone sull’europa sud-orientale, che dai porti adriatici si estende a quelli sul Mar Nero, dal quale da sempre sogna di affacciarsi. Ma negli ultimi anni il Cremlino, a differenza di quanto fece tra otto e novecento, non ha pensato di intervenire direttamente. Piuttosto ha sfruttato la propria posizione – antagonista agli Stati Uniti – per presentarsi alle opinioni pubbliche locali come l’unica alternativa possibile al mondo globalizzato-occidentale. Un mondo verso il quale, da queste parti come ovunque in Europa, è montato rapidamente un profondo risentimento popolare.

Qui non si parla di sostegno alla Russia in politica estera, di quanto essa piaccia o non piaccia ai romeni e ai moldavi; ma di un “modello Russia”, di uno stile di governo sperimentato, consolidato ed esportato dal Cremlino dopo la salita al potere di Vladimir Putin. Al centro vi è il ritorno ad un identitarismo di matrice etnico-culturale, la difesa di quell’identità che si dice minacciata dalle politiche dell’UE e dalle migrazioni afro-asiatiche. C’è la sacralizzazione dell’uomo bianco, con la sua storia, cultura e lingua nazionale. La politicizzazione della religione, le croci esposte in piazza e le strette di mano con il patriarca. Tutti elementi di una nuova ideologia che in molti dei paesi del blocco post-comunista sembra aver superato, da destra e da sinistra, quella del sovranazionalismo europeo. E pensare che proprio quest’ultimo, teorizzato da Jean Monnet all’alba della guerra fredda, avrebbe dovuto amalgamare, dopo la caduta, i due lati del muro.

É precisamente questa la cifra poltica che oggi caratterizza i due paesi danubiani. La fase elettorale aperta dalle elezioni di ottobre ’24, che passerà per le presidenziali 2.0 in Romania e le parlamentari in Moldavia, è stata il trionfo della polarizzazione politica-identitaria. Da una parte il sostegno indiscriminato alla causa europea, che accetta di cedere parte della propria sovranità nazionale per evitare di perderla tutta (come rischia di succedere all’Ucraina). Dall’altra, al contrario, la demonizzazione, che va dal rifiuto totale dell’integrazione UE all’Europa delle nazioni (dei Patrioti). E, parallelamente, intorno a questi due blocchi si identificano gli elettori. Perchè le posizioni euroscettiche, così come quelle europeiste, portano sempre con sè un corredo ideologico che va ben oltre la mera politica estera (di per sè asettica e poco coinvolgente).

In Romania, fatto fuori Georgescu, il campione del sovranismo identitario è diventato George Simion. In vista delle presidenziali di domenica 4 maggio, tutti i sondaggi lo vedono vincere al primo turno: lo vedono, di fatto, come politico più popolare del paese. Le sue posizioni ricalcano bene il già citato “modello Putin”. Il nome del suo partito, ad esempio, è tutto un programma: Alleanza per l’unione dei romeni (Alianța pentru Unirea Românilor), dove per romeni si intende anche quelli di Ucraina, Moldavia e Bulgaria. I più attenti avranno notato l’analogia con il concetto russo di “compatrioti” (sootcestvenniki), che negli ultimi anni è servito a giustificare l’espansionismo di Mosca nelle repubbliche post-sovietiche. Simion, considerato persona non grata in Moldavia e in Ucraina, ha indicato nelle istituzioni europee una minaccia esistenziale per la nazione romena, per la famiglia tradizionale e per il credo ortodosso. Facendolo ha elevato questioni puramente concrete ad un livello quasi astratto, intangibile; ha sacralizzato un dibattito meramente politico, secolare, laico. E lo ha fatto coscientemente, colpendo nel profondo milioni di uomini e donne che nell’economia di mercato post-socialista sono rimasti indietro, incastrati in quello che la scrittrice bielorussa Svetlana Alexievich definisce un “tempo di seconda mano”.

Oltre il fiume Prut, in Moldavia, si vive una situazione simile. Anche qui l’alta politica porta avanti prima di tutto delle battaglie identitarie. Per i socialisti di Stoianoglu e Igor Dodon, anch’essi prodotti del putinismo, la difesa della nazione moldava viene prima di tutto; anche se, dopo oltre tre decenni, non hanno ancora fornito un’idea chiara di cosa sia quest’ultima. Dall’altra parte, la presidente in carica Maia Sandu sta portando avanti il lavoro opposto: secolarizzare il dibattito sull’identità moldava, cercando una sintesi a metà tra l’affinità storica-culturale con la Romania e la vicinanza ai valori dell’Unione Europea.

Il fatto che in Romania il principale candidato alla Presidenza della repubblica sogni di ristabilire i confini pre-Seconda Guerra Mondiale, e che nel frattempo in Moldavia persista l’incertezza su questioni essenziali come quella dell’identità nazionale, è sufficente a indicare che aria tira tra le rive del Danubio e quelle del Dnestr. L’impressione diffusa è che i destini della regione dipenderanno molto da chi siederà a Palazzo Cotroceni, a Bucarest. E ciò riguarderà tutte le regioni della “Grande Romania”, non soltanto la Moldova. Per maggiori informazioni chiedere agli ungheresi di Transilvania, agli ucraini di Bucovina e alle centinaia di migliaia di rom che abitano il paese.

Fonte immagine: cartografia di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni

Chi è Livio Maone

Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Roma Tre. Attualmente è studente magistrale all’Università di Bologna.

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