CITTA’: Banja Luka, la calma prima della tempesta

Banja Luka è una città smobilitata. Il confronto con l’attivismo e la passione degli studenti in Serbia è brutale. Anche nei giorni di maggiore tempesta politica, la città è assolutamente calma e tranquilla.

Sono lontani i tempi del 2018-2019, delle manifestazioni di Pravda za Davida, giustizia per David, che portavano in piazza ogni giorno migliaia di persone contro la corruzione del governo guidato da Milorad Dodik e contro l’insabbiamento da parte della polizia dell’omidicio di un ragazzo ventunenne, David Dragičević. Delle manifestazioni davanti al centro commerciale Boska oggi rimane solo la traccia di un cuore disegnato per terra, tra il carretto dei popcorn e il venditore di biglietti della lotteria.

Ana* (nome di fantasia) ha trent’anni e non sa immaginarsi il suo futuro qui. E’ cresciuta all’estero, dove i suoi genitori si erano rifugiati nel 1995, prima di rientrare. “Ho una laurea in ingegneria ambientale, ma devo lavorare come commessa nei negozi d’abbigliamento”. Lei c’era, ogni tanto, alle manifestazioni, pur senza mai aver conosciuto David di persona. C’era, soprattutto, un anno dopo il funerale, quando la madre ha chiesto la riesumazione della bara per trasferirla in Austria. “Abbiamo accompagnato il corteo fino a Gradiška e salutato il carro funebre che passava la frontiera. E’ stato il momento più triste che abbia vissuto. Questa terra non fa fuggire solo i vivi, ma anche i morti.”

Banja Luka sta vivendo il boom della speculazione edilizia. Ne è prova il progetto Bijeli Dvor, complesso residenziale in pieno centro con appartamenti di lusso venduti a progetto a oltre 3500 euro al metro quadro. Lo scheletro del cantiere sovrasta il monumento titoista con la stella rossa e i busti del maresciallo Zhukov e dei partigiani jugoslavi, all’angolo del viale. Lì mi ferma Pero*, 65 anni e un arto atrofizzato. Ha lavorato per anni come cameriere “nel palazzo” – indica le istituzioni della Republika Srpska, dall’altro lato della strada – e oggi non ha neanche i 10 euro necessari per pagarsi il ticket della visita dal neurologo. “Erano altri tempi. I miei genitori hanno tirato su sei figli. Io ne ho uno solo, che non trova lavoro. Ma chi è in politica oggi potrà permettersi anche uno di questi appartamenti”.

A Banja Luka è tutto tranquillo, dicono. La presenza della polizia è pervasiva. Il presidente Dodik si è chiuso nel palazzo, nonostante il mandato d’arresto, e sfida la polizia bosniaca di venire a prenderlo. Gli analisti vicini al regime di Dodik affermano che è tutta colpa di Sarajevo che non rispetta i serbi, che la Republika Srpska non ha alcuna volontà di secessione, che la Russia non c’entra niente. Intanto, in città non si vede una bandiera bosniaca che sia una, ma tutti i lampioni sono adornati delle bandiere della RS e della Serbia – omaggio al “mondo serbo” unito oltre ogni frontiera, anche se la legge che lo permetteva è stata nel frattempo sospesa dalla Corte costituzionale statale. E la Russia? Per quella c’è il Café Putin, con manichino a grandezza naturale alla porta d’ingresso ed effige del presidente russo su ogni tavolo e parete.

Il Museo di Arte Contemporanea – uno dei pochi luoghi di possibile dissidenza culturale, ospitato nella vecchia stazione degli autobus – è chiuso in attesa di un nuovo allestimento. Al suo fianco, è ormai quasi completo il “monumento ai caduti della Vojska Republike Srpske“, l’esercito serbo-bosniaco durante il conflitto degli anni ’90 – un enorme labirinto di pilastri di cemento, costruito su evidente ispirazione dell’estetica della memoria dell’Olocausto, piegata alla narrativa dominante di vittimismo e negazionismo. Sono stati quegli stessi soldati a compiere il genocidio di Srebrenica e la pulizia etnica di tutta la Bosnia orientale – ma in città non vi è nulla che lo ricordi. Anche delle 16 storiche moschee ottomane di Banja Luka, rase al suolo all’inizio della guerra, solo la Ferhadija e l’Arnaudija sono state ricostruite, per intercessione della Turchia di Erdogan. Le organizzazione della società civile e i media indipendenti denunciano la stretta repressiva, con ispezioni fiscali a sorpresa, mentre ancora devono entrare in vigore le temute norme sugli “agenti stranieri”.

Restano comunque alcuni spazi di dissenso. Al “teatro nazionale della Republika Srpska” – nome bombastico per una piccola sala degli anni ’30 – si rappresenta dallo scorso dicembre “La brocca rotta“, commedia del 1811 di von Kleist. Il protagonista, un giudice disonesto rappresentato da Aleksandar Stojković “Piksi“, viene ad un certo punto scoperto e prima accusa gli altri personaggi di diffamazione (Dodik l’ha resa di nuovo reato l’anno scorso), quindi se ne esce con un “questo non è un attacco contro di me, è un attacco contro lo stato!” – facendo scoppiare la risata e poi l’applauso della platea. Il riferimento all’attualità politica è anche troppo evidente. “La sera vediamo i personaggi di Savanović e Piksi a teatro, e il giorno dopo i loro prototipi al telegiornale”, scriveva il quotidiano locale Nezavisne Novine in una prima recensione.

Solo due anni fa, lo stesso Piksi aveva dovuto difendersi dalle polemiche per aver invitato i colleghi sarajevesi del teatro SARTR a partecipare al 25° Festival “Petar Kočić”, che la tv pubblica della Srpska aveva boicottato, come riporta Lupiga. “Sono passati trent’anni, non mi devo giustificare con nessuno. Sono stato soldato della VRS e ferito di guerra, ho perso amici e gioventù, oggi accompagno mio figlio sulla tomba di mio nonno a Sanski Most, in Federazione. Il sangue è lo stesso per tutti“.

 

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Chi è Andrea Zambelli

Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.

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