Decenni di mala politica e tre anni di guerra in Ucraina hanno generato il fenomeno-Georgescu, che ha racchiuso in sè rabbie e paure della popolazione romena. Uccidere il mostro basterà ad esorcizzare il paese?
Il 9 marzo, la Corte costituzionale romena ha escluso Calin Georgescu dalle elezioni presidenziali in programma l’11 maggio. E la sera stessa, com’era prevedibile, Bucarest ha rischiato di precipitare nel caos. Centinaia di persone si sono radunate davanti alla sede del Comitato elettorale centrale per protestare contro la decisione della Corte. Una manifestazione spontanea in cui la rabbia si è presto fatta violenza, sfogata contro il cordone di polizia schierato a difesa dell’edificio e poi di tutto il centro vecchio.
Non è la prima volta che i sostenitori di Georgescu scendono in piazza. È successo dopo ogni decisione presa dalle istituzioni romene nei suoi confronti. A inizio gennaio nella “Marea Unire Juridica” (Grande Unione Legale) a Bucarest, di cui abbiamo riportato i fatti su EastJournal. Un mese dopo, nelle stesse piazze, per raccogliere le firme a sostegno della candidatura per le elezioni di maggio. E poi di nuovo, pochi giorni dopo, sempre nella capitale romena, a migliaia da tutti i distretti del paese per contestare l’accusa di reati mossi dalla procura verso il candidato.
Oltre al numero di persone coinvolte, ciò che impressiona è il coinvolgimento emotivo dei manifestanti. E in questo senso, la violenza scoppiata la notte del 9 marzo è emblematica. Gli scontri con la polizia e i roghi appiccati nelle strade della città erano sostenuti per la maggior parte da uomini di mezza età, arrivati disarmati e a volto scoperto, probabilmente nuovi a questo tipo di azioni. Così come le grida e i pianti delle signore, che sullo slogan “aparati-va tara” (difendi il tuo paese) per tutta la notte hanno fatto eco al suono delle sirene. Persone comuni la cui rabbia per anni è scivolata a fiumi sui social network, sfruttata sapientemente dall’opposizione di estrema destra, e che ha trovato all’improvviso un tremendo sbocco sulla realtà.
Per chi oggi governa la Romania, e soprattutto per chi la governerà domani, queste manifestazioni, queste immagini, dovrebbero far riflettere. La parabola politica di Calin Georgescu, il fenomeno-Georgescu, dovrebbe far riflettere. Ad esempio, come suggerito dal giornalista romeno Ovidiu Nahoi, si dovrebbe capire come un “ologramma gonfiato da bot e algoritmi, un discorso strano e vuoto di contenuto, possa generare una vera e propria isteria collettiva”. Per quanto estreme, illusorie ed estemporanee le posizioni di Georgescu hanno coinvolto milioni di persone, alimentandone le speranze e facendole sentire parte in causa di un cambiamento che avviene su larga scala. Hanno creato senso di appartenenza. Merce rara nel mondo contemporaneo e, ancor più, nel contesto romeno in cui, come in molti dei paesi dell’ex blocco comunista, la società civile di certo non pullula di attivismo politico.
Degne di nota dovrebbero essere anche le ragioni dietro al malcontento popolare. Se in un contesto democratico il fenomeno-Georgescu è deprecabile, la rabbia e le rivendicazioni di molti dei suoi sostenitori sono invece più che legittime. La corruzione ad ogni livello dello stato ad esempio; dal parlamento agli ospedali, dove per ottenere servizi si pagano i medici sottobanco. La distanza abissale tra chi ha tanto e chi ha poco, tra politica e società civile, tra centri e periferie, tra grandi aree urbane e piccole aree rurali. Il ricorso, da parte delle istituzioni statali, a metodi di dubbia natura democratica – come l’annullamento delle elezioni presidenziali in dicembre. Il tutto accompagnato da un evidente (ab)uso incontrollato dei social media, soprattutto tra i ragazzi, immersi in un mondo polarizzato tra le battaglie liberal e la mascolinità tossica di personaggi come Andrew Tate.
L’alta politica romena non ha ascoltato i campanelli d’allarme che arrivavano dal basso, non ha saputo accogliere questo malcontento. E allo stesso tempo la società civile non è stata in grado di organizzarsi autonomamente, e creare un soggetto politico alternativo a quelli già esistenti. Il sentimento anti-establishment, che lega le vicende romene a quelle di quasi tutti i paesi occidentali, è stato ignorato per anni. Nessuno è stato in grado di creare un’alternativa credibile in grado di spiegare, e quindi di sfruttare, i fenomeni e le controversie tanto della Romania quanto del mondo globalizzato. Guardando all’Italia, la parabola di Georgescu si posiziona a metà tra quella dei primi 5stelle e di Forza Nuova, perché da una parte accoglie istanze legittime e condivise da milioni di persone ma dall’altra ne fa un’agenda politica che se attuata porterebbe al completo disfacimento del paese.
Il grande problema, quindi, è che le esigenze reali della società romena dopo anni di inquietudine hanno trovato solo Georgescu. Ma egli non è reale, a differenza delle esigenze. Non è reale uscire dalla NATO e fare accordi con la Russia sul Mar Nero. Non è reale smembrare l’Ucraina e riconquistare la Bucovina del Nord. Non è reale una campagna elettorale su TikTok, in cui si riscrive arbitrariamente la storia del paese. Chi si è innamorato di questo fenomeno va ricondotto prima di tutto alla realtà, ancor prima che alla democrazia. Per farlo serve un ragionamento profondo, in grado di spiegare a milioni di persone stanche e arrabbiate che la nazionalizzazione delle imprese oggi non è possibile, così come l’espulsione delle multinazionali dal paese.
Per adesso, tuttavia, niente ragionamento. Anzi, chiusura totale da parte delle istituzioni. La Corte costituzionale ha ucciso il mostro sperando di esorcizzare il paese. Difficile, perché del fenomeno-Georgescu sappiamo già gli eredi: George Simion e Anamaria Gavrilia. Il primo dei due, che da sempre sogna di annettere la Moldavia alla Romania, nelle scorse elezioni ha preso il 14%. E ora che Georgescu non c’è più, è uno dei più quotati candidati alla presidenza della repubblica.
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Fonte immagine: Mediafax