Gli studenti occupano simbolicamente la sede dell’emittente di stato RTS, mentre c’è grande attesa per la maxi-protesta prevista a Belgrado il 15 marzo. Vučić minaccia ritorsioni: «Se volete sostituirmi, dovrete uccidermi»
BELGRADO. Nella notte di lunedì 10 marzo centinaia di studenti hanno simbolicamente bloccato l’accesso alla sede dell’emittente di stato RTS, la radiotelevisione pubblica. Stesso copione anche a Novi Sad, dove gli studenti hanno bloccato l’ingresso alla sede della Radiotelevisione regionale RTV, per dare man forte ai compagni di Belgrado.
Dal primo novembre scorso, data simbolo dell’inizio delle proteste in seguito al tragico incidente alla stazione ferroviaria di Novi Sad, l’emittente televisiva RTS ha sempre sminuito se non addirittura ignorato l’enorme movimento di contestazione, diventando la perfetta cassa di risonanza del regime del presidente Aleksandar Vučić, che nei suoi dieci anni di potere ha piegato i media alla narrazione politica del suo partito eliminando il pluralismo e la libertà di stampa.
Esemplare il modo in cui giornali e altri canali filo-governativi etichettano i manifestanti, definendoli “mercenari stranieri” o “nemici della patria”. Da un notiziario un po’ troppo sbilanciato sull’assalto della sede RTS, un DJ ha tratto una irriverente instant-song che è diventata subito virale sui social proprio grazie al suo sarcasmo pungente e al messaggio potentissimo che porta in grembo e che ormai sembra aver reso irreversibile il meccanismo di protesta: la resistenza si è intrufolata nella comunicazione di Stato.
Non solo: la rivolta è arrivata anche nei palazzi del potere, dove qualche giorno fa una rissa ha infiammato il parlamento, a conferma del crescente nervosismo che percorre le istituzioni serbe. Iniziate come rivendicazioni studentesche, le manifestazioni hanno progressivamente coinvolto ampi strati della popolazione diventando vere e proprie proteste antigovernative. Da quattro mesi il paese è attraversato da marce studentesche, manifestazioni oceaniche, blokade, scioperi nazionali che hanno coinvolto professori, avvocati, agricoltori, e 60 università che continuano a essere occupate.
Le proteste stanno mettendo sempre più all’angolo il presidente Vučić, simbolo della deriva del paese, già costretto a far dimettere il governo del premier Vučević. In vista della maxi-protesta prevista nella capitale serba per sabato 15 marzo, Vučić potrebbe schierare squadracce di sostenitori per sabotare le mobilitazioni e legittimare così una sorta di resa dei conti con l’intervento della polizia. Messo alle strette, il presente ha infatti tuonato minaccioso: “Se volete sostituirmi, dovrete uccidermi”.
Sullo sfondo di questi cataclismi sociali, Vučić ha recentemente tentato la carta dell’immaginario separatismo in Vojvodina, sperando di riportare la questione al centro e catalizzare il dibattito pubblico su un argomento diverso dalle Blokade.
Ma qualcosa sta cambiando. Con il martirio annunciato nella sua laconica dichiarazione, dove il presidente si dice pronto a morire pur di non essere spodestato, potrebbe venire alla luce una nuova strategia. Finora, pur sminuendo le proteste e etichettandole come il tentativo di una nuova “rivoluzione colorata” giostrata da agenti stranieri, Vučić si è strategicamente mostrato disposto a dialogare. Ma ora lo scontro potrebbe degenerare verso la violenza, troppo spesso tratto costitutivo dei mutamenti politici in Serbia nel passato.
Un’avvisaglia di questa nuova tattica potrebbe essersi già manifestata lo scorso venerdì, quando sostenitori di Vučić si sono accampati fuori dalle università occupate per ottenere in qualunque modo possibile ciò che vuole disperatamente il loro presidente-martire, disposto in questo ultimo slancio vittimistico a sacrificare la vita pur di raggiungere l’obiettivo: la fine delle proteste.
Foto: BalkanInsight