Lontano dal concorso principale e dal palazzo del cinema, la Berlinale concede lo spazio ad un cinema libero, che raramente raggiunge le sale ma che racchiude in sé alcune delle voci più interessanti della sfera est-europea.

CINEMA: L’altra Berlinale 2025

Lontano dal concorso principale e dal palazzo del cinema, la Berlinale 2025 concede lo spazio ad un cinema libero, che raramente raggiunge le sale ma che racchiude in sé alcune delle voci più interessanti della sfera est-europea.

Panorama, Forum, Generation… sono molte le sezioni collaterali del festival del cinema di Berlino –  la Berlinale – , e spesso si fanno portavoce del cinema più radicale e più interessante del festival. Negli scorsi anni abbiamo spesso trattato film di queste sezioni, incontrato gli autori. Una tendenza che abbiamo ulteriormente riscontrato è la scelta di collocare in queste zone periferiche i documentari che trattano la guerra in Ucraina, talvolta includendo alcune eccellenze di questo triste sottogenere, se è lecito così chiamarlo. Non potendo fornire una copertura completa del festival di quest’anno, abbiamo scelto di approfondire, a distanza, perlomeno questo angolo del festival, raramente trattato.

Tales of the magic garden, dir. Patrik Pass, Jean-Claude Rozec, Leon Vidmar, Dakid Sukup

Il cinema d’animazione ha una tradizione continua nella Repubblica Ceca, soprattutto nella forma della tecnica stopmotion, adottata anche dall’opera a otto mani del collettivo che ha creato Tales of the magic garden. La natura antologica del film emerge quando ormai si è accattivati dalla trama: tre fratelli visitano il nonno in seguito alla scomparsa della nonna, e per ricordarla cercano di rievocare il suo talento nel raccontare storie, inventandone a loro volta. Nonostante il senso di tradizione scaturito dalla centralità della narrazione di fiabe, i racconti sono impregnati di una sensibilità moderna, raccontando con una certa maturià la difficoltà del lutto all’interno di un’opera destinata principalmente al pubblico dei piccoli – ma che non evita di fascinare anche i grandi. Il film è stato presentato nella sezione Generation del festival.

Sandbag Dam, dir. Čejen Černić Čanak

Un film che si presenta immediatamente come un’opera queer, sulle tematiche LGBT, ambientata in un paesino dell’entroterra croato prossimo ad un’alluvione – il titolo evoca le sacche di sabbia delle barriere temporanee, metafora del coming out dei due protagonisti. Se Sandbag Dam cerca di costruire un sistema di pesi e misure, di simboli, di archetipi che descrivono una società “macista” in cui la “tenerezza” di un rapporto omosessuale resta un tabù, purtroppo il film racconta una storia talmente stereotipata e ripetuta, con uno stile filmico troppo banale, al punto da risultare un film del tutto inoriginale. Lav Novosel ed Andrija Žunac, i due attori protagonisti, danno il loro meglio per instillare vita in personaggi che mancano di particolarità, ma invano. L’uso di uno stile “iperrealista”, con la macchina a mano libera, non permette all’impronta metaforica del quale il film vuole prendersi carico, di traspirare. Molti errori potrebbero essere imputabili ad un debutto ancora in ricerca di una voca ben formata, ma si tratta di un’opera seconda, il che rende più difficile perdonare i difetti. Anche questo film è stato presentato in Generation.

Special Operation, dir. Oleksiy Radynski

Durante la fase in cui la Russia ha quasi raggiunto Kyiv, nel Febbraio-Marzo del 2022, un contigente militare russo ha occupato la centrale nucleare di Chornobyl, sito del più grande disastro nucleare della storia, simbolo di un’Unione Sovietica al collasso. Stranamente, le truppe russe non sarebbero riuscite a disattivare alcune delle telecamere di sorveglianza, e di conseguenza in seguito al ritiro, gli ucraini hanno avuto accesso al materiale. Radynski costruisce una sorte di film-testimonianza, una prova filmica che dimostra un capitolo dell’invasione russa. Le immagini sono completamente prive di commento, il suono è presumibilmente ricostruito in post produzione, e nei 65 minuti di film le telecamere inquadrano attività apparentemente quotidiane di soldati che usano la centrale come base operativa. Un testo a fine film sottolinea l’aspetto più agghiacciante: molti dei crimini di guerra riscontrati nei territori attorno alla centrale, tra cui massacri di civili, sono stati presumibilmente attuati da quel contigente, da quei soldati. Special Operation rientra in un filone che sembra aver trovato la chiave giusta per raccontare la guerra in Ucraina, attraverso la presentazione piuttosto oggettiva di episodi ed avvenimenti, priva dei sentimenti dell’autore ma non per questo meno coinvolgente. Il film è stato presentato in Forum Expanded.

Time to the target, dir. Vitaly Mansky

Il fortunato documentarista ucraino dedica con questo film, un’opera per raccontare la sua città, Leopoli. Non è il suo primo documentario sulla guerra in corso, ha già co-diretto Eastern Front, un film che purtroppo dedica più spazio alla presentazione di crudeltà contro gli animali da parte di militari ucraini che alla guerra in sè.

Con Time to the target il cineasta sembra aver aggiustato il tiro, raccontando la guerra attraverso la pressocché assenza di essa: Leopoli è più raramente un obiettivo dei bombardamenti, anche se non mancano di interrompere le attività quotidiane. Tre ore che raccontano tre anni, attraverso eventi, funerali (colpisce la presenza di un cimitero, all’inizio del film completamente vuoto, e che nel corso del film si riempie con tombe adornate da bandiere ucraine), un film che sceglie di lasciar parlare la città ed i cittadini, che raccontano di episodi dal fronte, di avvenimenti dei loro familiari. Time to the Target ricorda molto The Invasion di Sergei Loznitsa, e con esso compone un perfetto dittico riguardo alla guerra in Ucraina. Il film è stato presentato in Forum, posizione forse troppo marginale per quello che è, a tutti gli effetti, uno dei documentari più riusciti sull’argomento e che meglio riesce a bilanciare il distaccamento necessario per avvicinare e coinvolgere emotivamente lo spettatore nella tragedia ucraina.

The Swan Song of Fedor Ozerov, dir. Yuri Semashko

Apparentemente è un disastro di film: una messinscena semi-amatoriale, da reality televisivo di bassa qualità, con una scenografia che sembra a volte una stanza modello dell’Ikea. Eppure, The Swan Song of Fedor Ozerov è forse il film di finzione più accattivante e divertente delle sezioni collaterali del festival. Fedor ozerov, cantautore bielorusso che vive a Minsk, ha perso la sua maglia decorata con margherite che gli dà il potere di scrivere belle canzoni. Nel frattempo, in questo contemporaneo finzionale, Putin annuncia che entro tre giorni attaccherà gli Stati Uniti: nel caos generale, a Fedor ciò che importa di più è recuperare la sua maglia, anche se il mondo sembra prossimo alla fine. Nell’opera emerge un filone legato alla mitologia classica in modo inaspettato, vige una comicità travolgente, ma, in primis, il film racconta quel senso di impotenza e di responsabilità cin cui convivono gli espatriati, coloro che sono emigrati dalla sfera russa ma che restano comunque legati al loro bagaglio culturale, pur rigettando la situazione politica. Il film è stato presentato nella sezione Forum della Berlinale.

Letters from Wolf Street, dir. Arjun Talwar

Indiano, trasferitosi in Polonia da 10 anni dove ha completato gli studi cinematografici, Arjun Talwar racconta con questo film la strada in cui abita, Ulica Wilcza, letteralmente “wolf street”, e cerca di descrivere attraverso essa la Polonia moderna. Apparentemente è un processo simile a The Balcony Movie di Pawel Lozinski, che durante il COVID osservava dal proprio balcone i passanti ed interagendo con loro delineava un’immagine della Polonia contemporanea – ma Talwar è una voce diversa, la sua indagine presto devia e diventa un’esplorazione della questione dell’integrazione. Attraverso la propria esperienza, quella del fratello che si è tolto la vita, e la traettoria di Mo, ex-compagna di studi cinese che a sua volta cerca il proprio posto, Talwar racconta le ambiguità della società polacca, amichevole quanto ostile, accogliente quanto discriminante. Bilanciando humour, gravitas e fornendo una prospettiva, a proprio dire, esterna, Letters from Wolf Street è forse il documentario che meglio racconta la Polonia contemporanea, specialmente se accostato al film di Lozinski. Il film è stato presentato nella sezione Panorama della Berlinale.

Chi è Viktor Toth

Critico cinematografico specializzato in cinema dell'Europa centro-orientale, collabora con East Journal dal 2022. Ha inoltre curato le riprese ed il montaggio per alcuni servizi dal confine ungherese-ucraino per il Telefriuli ed il TG Regionale RAI del Friuli-Venezia Giulia.

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