di Filippo Cicciù
Dopo i festeggiamenti del capodanno curdo, il Nawrūz, scivolati drammaticamente nel sangue e nella repressione, il governo di Ankara si prepara a mettere in pratica una nuova strategia per affrontare la questione curda. Le parole chiave sono collaborazione con le comunità locali, rapporti più stretti con i rappresentanti politici curdi non violenti e nessun dialogo con il PKK. Mentre la decisione infiamma il dibattito, gli Usa si affrettano a congratularsi con la Turchia.
All’indomani dei feroci scontri con la polizia e le devastazioni nel corso del Nawrūz, Recep Tayyip Erdoğan annunciava ai suoi “fratelli curdi” che il Bariş ve Demokrasi Partisi (BDP, principale formazione politica curda “della pace e della democrazia”) non era un partito in grado di proteggere i loro diritti. Due giorni prima un attivista di quel partito moriva durante gli scontri di piazza a İstanbul in occasione del Nawrūz. Con notevole abilità retorica il primo ministro turco scostava l’attenzione dal fatto che la guerriglia urbana dei giorni precendenti fosse in gran parte scaturita dal divieto di celebrare i festeggiamenti imposto da Ankara. Secondo Erdoğan infatti gli scontri tra polizia e manifestanti erano nati a partire da “orribili provocazioni” messe in atto proprio dal partito curdo BDP.
Nella reltà politica, l’avvertimento circa l’inadeguatezza del BDP a sostenere la causa curda non era che la premessa per annunciare una nuova strategia governativa per la gestione della situazione dei curdi. Se Ankara ha deciso di rafforzare i rapporti con in gruppi curdi non violenti, e parallelamente chiudere il dialogo con il PKK, le parole di Erdoğan rivelano come il BDP curdo non sia considerato dal governo come un interlocutore credibile. Il paradosso è che gli Usa a parole lodano la nuova strategia del governo turco, secondo il segretario di stato Hillary Clinton si tratta di “un passo nella giusta direzione”, ma nella realtà hanno sempre spinto affinché ci fosse un dialogo aperto con il BDP.
Accusare a parole il BDP di non difendere la causa curda e di essere collegato con l’organizzazione terroristica del PKK è la strada che ha scelto Erdoğan per mostrarsi consapevole del problema curdo e promuovere con facilità una nuova politica di gestione dell’emergenza a partire da un maggiore dialogo con le province del sud est del paese. Parallelamente non ci sarà nessun dialogo con il PKK anche se continueranno i tentativi per portare l’organizzazione terroristica a deporre le armi. Sembrerebbe che l’intenzione di Ankara sia trovare una collaborazione con le varie località del sud est del paese per portare la stessa popolazione locale a fare pressione affinché il PKK deponga le armi, o comunque rimanga isolato. Per il governo turco parlare di rapporto con le istituzioni locali significa cercare anche un nuovo dialogo con il Kurdistan iracheno di Masoud Barzani affinché quest’ultimo cerchi di convincere in qualche modo i terroristi lasciare la strada della lotta armata.
Il cambiamento di politica da parte di Ankara rivela tra le righe il fallimento delle politiche adottate sino ad oggi che sicuramente hanno segnato moltissimi passi in avanti ma non sono ancora risucite a risolvere la situazione. E’ infatti a partire dalla presa del potere nel 2002 che la questione curda occupa un posto di rilievo nell’agenda del governo guidato da Erdoğan. Si tratta di un un terreno minato e incandescente e nello stesso tempo di una ferita che se venisse curata a dovere segnerebbe un fondamentale passo in avanti della Turchia nella strada verso la “democratizzazione” richiesta a livello internazionale, dall’Europa in primis. Fin dai tempi delle sue prime campagne elettorali, l’AKP si è sempre dimostrato molto aperto nei confronti della questione curda anche se è necessario sottolineare un particolare fondamentale: la difficoltà dell’integrazione di una minoranza con cui i turchi condividono la stessa religione.
A parte alcune eccezioni sostanziali come gli armeni, l’integrazione per le minoranze di religione non musulmana che risiedono in Turchia rappresenta infatti uno degli ambiti entro il quale il governo di Erdoğan ha fatto grandissimi progressi come dimostra il recente provvedimento (attualmente in corso di attuazione) per cui si sta procedendo alla restituzione di beni immobili sottratti nel corso del XX secolo alle minoranze religiose presenti in terra turca. Diverso il discorso nei confronti della minoranza curda con la quale i turchi sono “fratelli nella fede”, come recentemente affermato dal primo ministro Erdoğan.
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