TURCHIA: Le prospettive dopo l’appello di Öcalan alla dissoluzione del PKK

Il 27 febbraio scorso, in un’affollata sala dell’Elit World Hotel di Taksim, a Istanbul, una delegazione del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM Parti) ha dato lettura pubblica (in turco, curdo, arabo e inglese) dell’“appello per la pace e una società democratica”, scritto dal leader del PKK Abdullah Öcalan nel penitenziario sull’isola di İmralı, dove è recluso in regime di totale isolamento dal 1999, anno del suo arresto in Kenya da parte dei servizi segreti turchi.

L’evento sancisce una svolta storica nell’ambito dei rapporti tra lo stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), l’organizzazione nazionalista curda fondata nel 1978, considerata gruppo terroristico da Turchia, Iran, Stati Uniti ed Unione Europea. Nel documento, Öcalan, constatando l’esaurirsi della funzione storica del gruppo insurrezionale e l’inadeguatezza delle sue soluzioni politiche federative e di autonomia amministrativa, si assume la piena “responsabilità storica” di chiamare le formazioni militanti curde a deporre le armi, ingiungendo al PKK di convocare un congresso che ne decreti la dissoluzione. Il 1° marzo, il comitato direttivo del PKK ha accolto l’appello, proclamando un cessate il fuoco immediato e dichiarando la disponibilità a mettere in atto le disposizioni del leader politico, oltre un trentennio dopo l’inizio della sanguinosa offensiva su vasta scala lanciata nel 1984 contro il governo centrale, che ha provocato, ad oggi, oltre 40.000 morti.

Una lunga strada verso la pace: tra fallimenti e successi

L’appello di Öcalan è il risultato di un complesso processo negoziale la cui accelerazione finale è stata simbolicamente sancito dalla stretta di mano, avvenuta il 1° ottobre 2024, tra Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), alleato di governo di Erdoğan, da sempre assestato su posizioni nazionaliste e avverse alle minoranze etniche, e Tuncer Bakırhan, esponente di punta del partito filo-curdo DEM.

A ciò è seguito un invito formale, pronunciato da Bahçeli davanti alla Grande Assemblea Nazionale del Popolo Turco il successivo 22 ottobre, con il quale il politico si è rivolto ad Öcalan esortandolo a sciogliere il PKK e prospettandone, addirittura, la fine dell’isolamento in carcere e un possibile intervento dagli scranni del Parlamento per annunciare la “fine del terrorismo”.

In due diversi momenti, il 28 dicembre e il 22 gennaio, una delegazione del Partito DEM guidata dai deputati Pervin Buldan e Sırrı Süreyya Önder, ha incontrato Öcalan ad İmralı, avviando un confronto con il leader curdo mirante a trovare, nel quadro del nuovo paradigma politico proposto da Bahçeli – che vede Erdoğan in una posizione insolitamente marginale e svincolata –  una “soluzione durevole alla questione curda” che possa coinvolgere l’intera società turca attraverso il “rafforzamento della fraternità curdo-turca“.

Il rinnovato dialogo di Ankara con i separatisti curdi si inscrive in una strategia politica di lungo corso formulata dal Ministro degli Esteri Hakan Fidan, ex capo dell’intelligence, articolata in tre tappe graduali: indebolire il PKK e i suoi gruppi affiliati in Iraq e Siria per mezzo di attacchi mirati; costringere il gruppo a presentarsi al tavolo delle trattative in una posizione di debolezza; e negoziarne la dissoluzione attraverso degli intermediari politici filo-curdi.

Il successo dell’ultimo processo negoziale è in parte attribuibile alla lezione tratta dal fallimento dei due precedenti tentativi, portati avanti dal governo dell’AKP. I primi negoziati, mediati dalla Norvegia ad Oslo tra il 2009 e il 2011, non portarono a risultati sperati in quanto mancarono di trasparenza e consenso politico trasversale.

Audio segreti riguardanti le trattative vennero divulgati, minando la fiducia della popolazione nelle istituzioni, mentre l’opposizione (MHP e CHP) accusò il governo di “trattare con i terroristi” del PKK – che nel luglio 2011 uccisero 13 soldati turchi in un’imboscata a Silvan – e la magistratura, dominata da gruppi legati al Movimento Hizmet, tentò di sabotare i colloqui di pace spiccando nei confronti di Fidan un mandato di comparizione di fronte ai procuratori di Istanbul.

La seconda iniziativa, tra il 2013 e il 2015, naufragò a causa di fattori riconducibili alle dichiarazioni di auto-amministrazione portate avanti dai gruppi militari affiliati al PKK nelle principali città curde (Hendek strategy), all’emergere, nel nord della Siria, delle Unità di Protezione Popolare (YPG), e ai nuovi assetti politici definiti dalle elezioni del giugno 2015, nelle quali il partito filo-curdo HDP ottenne un risultato inaspettato, impedendo all’AKP di formare una maggioranza di governo e determinandone di fatto l’alleanza politica con i nazionalisti del MHP.

Sulla scorta di questi precedenti, le trattative conclusesi con l’appello di Öcalan sono state gestite in modo più attento e misurato dal governo turco, annunciando i progressi solo dopo che questi erano irreversibili e sfruttando favorevolmente le dinamiche regionali in Iraq e Siria.

Secondo il sociologo Mesut Yeğen, è proprio il timore di un deterioramento della stabilità regionale, unito alla volontà di avviare una riconciliazione con le forze curde in Turchia e nei paesi confinanti, ad aver motivato la nuova apertura.

Il nodo delle YPG, il ruolo degli USA e gli scenari futuri

Il processo di pace ingaggiato da Ankara presenta delle intrinseche fragilità in quanto dipendente in modo preponderante, non solo da sfide politiche interne – legate alle evidenti esitazioni del CHP, il maggior partito d’opposizione, timoroso che i negoziati possano strumentalmente servire gli interessi della maggioranza, in cerca del supporto curdo per le presidenziali del 2028 – , ma anche da dinamiche esterne, connesse agli equilibri geopolitici regionali.

Mentre i leader della Regione del Kurdistan iracheno sembrano aver recepito positivamente gli sviluppi, l’operato delle YPG, ala militare del Partito dell’Unione Democratica (PYD) nella regione autonoma siriana del Rojava, costituisce un nodo problematico rilevante, in quanto percepito da Ankara quale diretta emanazione del PKK oltreconfine e potenziale minaccia alla tenuta dell’accordo, anche alla luce delle dichiarazioni di Mazloum Abdi, comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane (SDF), il quale ha precisato che “l’appello di Öcalan non si applica alle SDF”.

Oltre alle discordanti e non univoche reazioni all’appello mostrate dalle varie frange di cui la complessa struttura del PKK si compone, la fine della lotta armata in Turchia, come suggerisce l’analista Yusuf Kanlı, è direttamente legata al triangolo USA-Turchia-YPG e al supporto militare fornito dagli Stati Uniti alle YPG, la cui continuità finisce per rendere incompleto e politicamente fragile ogni progetto di disarmo, limitandosi a spostare il centro di gravità della lotta armata, senza determinarne la fine.

Affinché l’iniziativa promossa da Ankara possa dar luogo a risultati stabili sul lungo termine, continua Kanlı, questa dovrebbe essere accompagnata da un cambiamento delle politiche statunitensi nello scacchiere siriano, il consolidamento del dialogo con la nuova dirigenza politica a Damasco, nonché da garanzie di sicurezza atte a scongiurare il pericolo di un ricollocamento delle forze del PKK in Siria e una continuazione della lotta armata sotto forme diverse.

L’incognita YPG sembra stabilizzarsi con la firma dell’accordo, siglato il 10 marzo tra Abdi e il presidente ad interim della Siria Ahmad al-Sharaa, che incorpora la regione autonoma curda entro le strutture dello stato centrale, imponendo un cessate il fuoco su tutto il territorio nazionale, e riconoscendo a tutti i cittadini siriani, a prescindere da etnia e religione professata, piena partecipazione e rappresentazione nella nuova Siria. Il nuovo sviluppo potrebbe configurarsi come un primo passo verso la de-escalation del conflitto tra le Unità di Protezione Popolare, la Turchia e le fazioni di ex ribelli siriani sostenuti da Ankara, aprendo interrogativi sul destino dell’occupazione militare turca nel nord-est e nord-ovest della Siria, e di quella statunitense nel nord-est.

In aggiunta, è importante sottolineare come il carattere rigido della Costituzione turca – i cui primi quattro articoli immodificabili salvaguardano la struttura unitaria della Repubblica – e della legislazione antiterrorismo si configuri quale notevole ostacolo ad una fluida transizione del PKK da gruppo armato a soggetto politico, ponendo serie sfide per quanto concerne l’integrazione nella vita civile dei suoi membri e la gestione di eventuali amnistie senza suscitare contraccolpi negativi nella società turca.

In tal senso, lo storico Taner Akçam fa notare come, in assenza di una genuina apertura democratica che preveda un ripensamento della cittadinanza e la concessione di maggiori diritti culturali e politici alla minoranza curda, il processo di pace appaia fortemente instabile e privo di solide garanzie istituzionali.

Foto: Öcalan insieme alla delegazione del Partito DEM a İmralı (Yetkin Report)

Chi è Vanni Rosini

Nato a Firenze nel 1999, studente magistrale in Storia all’Università degli Studi di Firenze, dove ha approfondito la conoscenza della lingua turca. Si interessa di Medio Oriente, con particolare attenzione verso la Turchia. Nel 2022 ha trascorso un periodo di studio presso la Bilgi Üniversitesi di Istanbul. Scrive anche per Limes Club Firenze.

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