“Il Seme del Fico Sacro“ di Mohammad Rasoulof non è soltanto un’opera cinematografica, ma l’eco di un’esistenza lacerata. La storia personale del regista, incarcerato per le sue posizioni critiche contro il regime in Iran e costretto a fuggire in esilio, si intreccia inevitabilmente con quella del film. Il film nasce come un atto di resistenza, concepito tra clandestinità e pericoli costanti. Le riprese, effettuate in segreto, includono immagini amatoriali delle proteste del 2022, che, sebbene non sempre riuscite, sfidano una censura opprimente.
Il microcosmo familiare come specchio della società
“Il Seme del Fico Sacro” si colloca in un momento storico cruciale, sullo sfondo del movimento “Donna, vita, libertà” che ha scosso l’Iran. La narrazione segue la parabola di Iman (nome che in persiano significa fede, uno dei tanti simbolismi del film), un funzionario promosso a investigatore del Tribunale Rivoluzionario dell’Iran proprio mentre il paese attraversa tensioni sociali profonde.
Questa sincronicità diventa una metafora potente nel corso del film: mentre le istituzioni perdono progressivamente presa sulla società, Iman vede sgretolarsi la propria autorità domestica. La scomparsa della sua pistola d’ordinanza (simbolo del potere coercitivo tanto caro al sistema) innesca una spirale paranoica che lo porta a sospettare della propria famiglia, trasformando lo spazio domestico in microcosmo delle dinamiche repressive che permeano la società iraniana contemporanea.
Il nucleo familiare di Iman diviene teatro di una destabilizzazione che riflette le fratture sociali. La moglie, inizialmente presentata come figura che replica la retorica ufficiale – come nella scena emblematica in cui, con un rosario tra le mani, condanna i manifestanti di voler ballare nudi per strada – vive una trasformazione interiore che richiama la stessa contraddittorietà di molte figure femminili nella società iraniana, soprattutto delle generazioni precedenti, divise tra imposizioni esterne e aspirazioni personali, che appare però scarsamente sviluppata nella sua progressione psicologica.
Le figlie invece diventano catalizzatrici di eventi che portano la violenza della strada all’interno dello spazio domestico, creando un parallelismo tra oppressione pubblica e privata. La narrazione costruisce così un sistema specchiante dove le micro-dinamiche familiari riflettono le macro-tensioni sociali, evidenziando come i meccanismi di controllo e sorveglianza penetrino fin negli spazi più intimi.
Il linguaggio del simbolismo: potenza e limiti
Il film è intriso di simbolismi, alcuni accecanti nella loro ridondanza. L’arma smarrita di Iman diventa emblema di un potere patriarcale che si dissolve. Il titolo persino evoca l’immagine del fico, simbolo ricorrente nella poesia e letteratura persiana. Le mani della madre, che prima strappano le sopracciglia alla figlia e poi estraggono i proiettili dal volto di una manifestante ferita, tracciano una linea sottile tra la repressione domestica e quella politica. I riferimenti alla figura di Qasem Soleimani, evocata attraverso immagini nelle sale d’interrogatorio e dettagli come l’anello dell’interrogatore, assumono significati stratificati comprensibili pienamente solo a chi vive quotidianamente l’iconografia politica del regime dell’Iran.
Tuttavia, questa abbondanza simbolica finisce per soffocare lo sviluppo umano dei personaggi, trasformandoli in mere allegorie, rischiando talvolta di appesantire la narrazione per un spettatore iraniano già saturo di questi codici visivi, sacrificando la fluidità drammaturgica all’intensità del messaggio.
La problematica soluzione della violenza
Il film culmina con un atto estremo che solleva interrogativi sulla visione del cambiamento sociale proposta dall’opera. La scena finale, ambientata tra rovine, evoca un senso di devastazione invece che di ricostruzione, riflettendo forse l’esperienza di chi, come Rasoulof, ha vissuto cicli ripetuti di speranza e disillusione nei processi di cambiamento sociale iraniani. Rasoulof intreccia un dialogo con l’eredità kafkiana del regime iraniano sulla società, eppure la sua visione rimane confinata in un pessimismo che non scorge orizzonti alternativi. La famiglia, elevata a metafora dell’intero tessuto sociale, si trasforma in un microcosmo claustrofobico ripiegato su se stesso, dove la trasformazione si consuma esclusivamente attraverso il prisma della vendetta e della violenza letale. Una chiusura che denuncia l’impasse di un sistema morente, ma che non immagina possibilità di riscatto oltre la distruzione.
Chi apprezzerà di più il film?
Se per lo spettatore straniero il film rappresenta una preziosa finestra sulle assurdità del regime dell’Iran, per chi ha vissuto sulla propria pelle decenni di repressione, il messaggio risulta a volte didascalico. L’opera sembra parlare più agli occhi esterni che a quelli consapevoli, offrendo una denuncia coraggiosa, ma senza svelare verità sconosciute a molti iraniani.
Nel film, il primato del messaggio politico e ideologico sovrasta la dimensione narrativa. Questa scelta, sebbene coerente con l’intento di denuncia, priva la storia di quella profondità psicologica necessaria per creare un legame empatico con lo spettatore soprattutto iraniano. La struttura narrativa, soprattutto nell’ultimo terzo del film, si frammenta in una successione di simboli che rischiano di sacrificare la coerenza drammatica in favore di un’esposizione didascalica.
“Il Seme del Fico Sacro“ è un’opera potente nella sua denuncia, ma per un iraniano come me risulta limitata dalla sua stessa estetica simbolica. Il film restituisce il senso di collasso di un sistema che implode, ma manca di una prospettiva rigeneratrice. Il grido di Rasoulof risuona con forza, ma si smarrisce nell’eco di una disperazione senza riscatto.
Nonostante i suoi limiti, il film si erge come un atto di resistenza culturale, una voce che rompe il silenzio imposto per narrare la complessa sinfonia di un Iran sospeso tra oppressione e un ardente desiderio di libertà e prosperità. Ci possiamo forse illudere, visto che da ogni rovina spunterà prima o poi un fiore, sperando che dalle rovine della scena finale immaginata da Rasoulof possano germogliare almeno nuovi fichi.
In Italia, il film è uscito nelle sale il 20 Febbraio scorso, distribuito da Lucky Red.
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