Nelle ultime settimane si è molto parlato dell’avvio di possibili negoziati che pongano fine – o almeno impongano una tregua – al conflitto che da ormai tre anni imperversa sul suolo ucraino. Chi sta portando avanti le trattative e quali sono le possibilità che si arrivi ad una “pace giusta”?
Tramontate definitivamente le illusioni di una soluzione militare, il tempo delle trattative sembra ora più vicino che mai, complice l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Tuttavia, è importante ricordare che, nonostante le promesse del nuovo presidente americano di “porre fine alla guerra in 24 ore”, i processi negoziali hanno tempistiche ben diverse, e una cessazione delle ostilità non sembra imminente.
Trump accelera
Ad oggi sarebbe forse più corretto parlare di trattative tra Stati Uniti e Russia. Il nuovo inquilino della camera ovale sembra decisamente più interessato al dialogo con Mosca rispetto al coordinamento con Kiev, come dimostrano le più recenti iniziative di Washington.
Il 12 febbraio la linea telefonica diretta tra i due paesi è tornata attiva dopo anni di inutilizzo. La chiamata – “molto produttiva”, dice Trump – ha visto come protagonista, com’è ovvio, la situazione bellica. Ma non solo: nel contesto di una progressiva distensione, Mosca ha liberato Marc Fogel, ex insegnante americano detenuto nel paese dal 2021. Come contropartita, Washington ha liberato Alexander Vinnik, noto criminale informatico.
L’euforia e l’ottimismo che traspaiono dalla stampa russa e da quella americana non devono però trarre in inganno. Un riavvicinamento dei due paesi – com’era prevedibile accadesse con l’elezione di Donald Trump – e la riapertura dei canali di comunicazione non significa necessariamente una concordanza di intenti. In un clima negoziale innervato dal machismo che contraddistingue le figure dei due capi di stato, cedere al compromesso significa attirarsi l’astio di gran parte del proprio elettorato populista.
Avendo Washington il coltello dalla parte del manico, la dinamica è oggi ben più evidente nella politica russa. Putin, da anni alieno al dibattito politico interno, si trova a fronteggiare una situazione particolarmente spinosa: da una parte c’è l’élite “tradizionale”, che vede in Trump la possibilità di affrancarsi dalle sanzioni e dalla recente politica che guarda maggiormente ai partner orientali – alla Cina, alla Corea del Nord ecc; dall’altra c’è una schiera di homines novi che con la guerra hanno fatto fortuna, e che vedono nell’accordo con gli Stati Uniti un sostanziale segnale di debolezza – nonostante Trump sia pronto ad offrire a Putin una via d’uscita che non rappresenta in alcun modo lo scenario peggiore per il Cremlino. Inoltre, questo secondo gruppo è formato da persone che hanno imparato a dare voce alle loro istanze in modo poco accomodante – per usare un eufemismo – e che, in molti casi, devono il loro capitale politico alla loro esperienza al fronte.
Negoziati e negoziatori
Può essere istruttivo, inoltre, conoscere le persone che, per parte russa e americana, andranno a comporre le squadre incaricate di portare avanti i negoziati. In un post, Trump ha già indicato alcuni nomi: il Segretario di Stato Marco Rubio, il direttore della CIA John Ratcliffe, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Waltz e l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, già protagonista delle trattative per il rilascio di Fogel.
Il Cremlino non ha ancora reso noto alcun nome, anche se sarà quasi certa la presenza di Kirill Dimitriev, già controparte negoziale impegnata per la scarcerazione di Vinnik. Classe 1975, Dimitriev è direttore del Fondo d’investimenti Diretto russo, di proprietà dello stato. Prima di diventare un imprenditore di successo in Russia si è laureato a Stanford e ad Harvard, iniziando la sua carriera presso la società di consulenza McKinsey e lavorando per Goldman Sachs.
Un profilo diverso da quello degli altri possibili negoziatori del Cremlino, veterani della politica russa della stessa generazione di Putin: Yuri Ushakov, 77 anni, consigliere di lunga data del presidente russo e ambasciatore negli Stati Uniti dal 1998 al 2008; e Sergei Naryshkin, 70 anni, con un passato nel KGB.
La figura di Dimitriev sembra quella più congrua ai metodi negoziali del rieletto presidente americano, non sempre attento alle formalità e più vicino ad un’idea imprenditoriale di trattativa.
Grandi esclusi
Evidente è l’assenza di Kiev in questi primi contatti. Certamente era scontato aspettarsi che Mosca pensasse agli Stati Uniti (come ha prontamente dichiarato il Cremlino) come al “principale partner con cui negoziare”, ma altrettanto evidente è la disaffezione nei confronti del partner ucraino con cui Trump sta portando avanti le prime iniziative. Nonostante gli incontri con Zelensky prima e dopo le elezioni di novembre, il capo di stato ucraino è stato informato delle iniziative di Washington “a cose fatte”, dando seguito alle narrazioni dell’Ucraina come ‘proxy’ americano.
La realtà è che del destino della popolazione ucraina non sembra importare poi tanto a Donald Trump, che, favorito da un’opinione pubblica stanca del conflitto, ha riportato in cima all’agenda politica il tema della compensazione degli aiuti militari ed economici che gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina in questi anni. Va in questa direzione, ad esempio, il tentativo di firmare accordi molto favorevoli a Washington in termini di sfruttamento delle risorse minerarie ucraine.
Un’altra grande esclusa è l’Unione Europea. In un clima di crescente competizione con l’alleato statunitense, l’UE non è stata in grado di ritagliarsi altro ruolo che non fosse quello di ente subappaltatore, incaricato di formulare e proporre garanzie di sicurezza diverse dall’entrata nell’Alleanza Atlantica – prospettiva, questa, sempre più distante. Anche l’ipotesi che le forze europee possano occuparsi delle operazioni di peacekeeping non è scevra da dubbi: innanzitutto, il Cremlino dovrebbe accettare la presenza di soldati europei quasi ai suoi confini; in secondo luogo, un’operazione del genere richiederebbe numeri di cui l’Unione Europea, da sola, fatica a disporre.
Ultima assente all’avvio delle trattative è la Cina. Pechino, che tanto si è spesa in questi anni nel sostegno a Mosca e nel tentativo di posizionarsi come mediatore più o meno affidabile, sembrava dover essere inevitabilmente parte dei negoziati. Paradigmatico dell’esclusione cinese è il fatto che i primi colloqui tra Trump e Putin si terranno, con tutta probabilità, in Arabia Saudita. L’apparente intesa ritrovata con il tanto detestato nemico si potrebbe rivelare dannosa per la Russia, che negli anni seguiti all’invasione ha ipotecato una grande fetta del suo futuro economico a favore della Cina. È difficile immaginare che i funzionari del Partito Comunista cinese si lascino sfuggire senza colpo ferire la possibilità di avere una voce in capitolo.
E ora?
I tempi non sono ancora maturi per poter indicare con precisione ciò che accadrà in futuro. I mesi che precederanno un eventuale cessate il fuoco e l’avvio ufficiale delle trattative saranno importanti per capire il perimetro all’interno del quale si muoveranno gli attori coinvolti. Di certo c’è che l’avvenire non si prospetta roseo per Kiev. I partner occidentali non sono stati in grado, in tre anni, di sviluppare un quadro realistico, pragmatico e condiviso attraverso il quale sostenere il percorso di integrazione di una popolazione stremata dalla guerra, preferendo agitare chimere come l’invio più massiccio di armamenti o la possibilità di entrare a far parte della NATO. Chimere tanto belle quanto irrealizzabili – a spese degli ucraini.
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Foto generata attraverso l’intelligenza artificiale