Di Filip Stefanović
C’è molto di positivo da raccontare sulle proteste che da oltre cento giorni interessano la Serbia, a seguito del crollo della tettoia ferroviaria di Novi Sad dove hanno perso la vita quindici persone.
Di già, la loro persistenza dimostra che la società serba non solo è ancora in grado di dare una fiammata, ma anche di imbastire una protesta pacifica di proporzioni tali da superare l’onda breve dell’indignazione, verso una visione più articolata di ciò che si attende dai suoi governanti. Il potere e gli scandali del regime di Aleksandar Vučić rendevano legittimo domandarsi, fino a pochi mesi fa, se davvero non ci fosse confine al malgoverno e alla corruzione che i serbi possono tollerare. Quel confine è ora tracciato nel sangue di Novi Sad.
In questo senso, i paralleli con le manifestazioni dell’inverno 1996-97 contro Milošević sono sì pertinenti per il significato storico che portano, ma anche ingrati per i manifestanti di oggi, dopo quasi trent’anni di impoverimento demografico. Nel 1996-97 le ceneri della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia erano ancora calde ed esisteva un tessuto sociale ed intellettuale che nonostante i limiti poteva offrire una resistenza, per quanto acerba e perlopiù passiva, allo sfacelo degli anni ‘90.
Nel 2020, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo stimava invece a 50.000 le persone che ogni anno lasciano la Serbia, perlopiù giovani ed istruite. Potendo votare con i piedi, lo 0,7% dei serbi, ogni anno, lascia il paese per sempre. Con 6,8 milioni di abitanti, la Serbia oggi ha un milione di persone in meno rispetto al 1997, in un trend costantemente in calo. Altrimenti detto, il tempo gioca a favore di Vučić e dei suoi accoliti, perché invece di incanalarsi in opposizione politica il dissenso scivola all’estero. Non è un caso che uno degli slogan favoriti dagli studenti serbi in questi mesi sia “O cambiamo il paese, o cambiamo paese”.
Gli studenti
Celebrati a ragione come la colonna portante dell’opposizione al regime, hanno saputo molto intelligentemente evitare facili passi falsi per non compromettere l’efficacia delle proteste. Domandando innanzitutto che “le istituzioni facciano il loro lavoro” (per assurdo, una frase fatta usata in passato da Vučić, sapendo bene che nessun crimine vicino al regime verrà punito, in un paese dove l’unica istituzione che conta è Vučić stesso), gli studenti hanno centrato il cuore del problema. Ancora più importante, hanno agito di conseguenza, rifiutando qualsiasi confronto diretto con Vučić (altro slogan: “Nessuno ti ha chiesto niente”), il quale pur essendo uno scaltro politico di lungo corso si è trovato spiazzato, abituato com’è ad affrontare ogni ogni forma di opposizione in prima persona.
Un patto tacito sembra anche ergersi tra la società civile in protesta ed i (deboli e frammentati) partiti di opposizione. Da un lato, gli studenti si sono tenuti bene alla larga dal chiedere o accettare una sponda nella politica, per non dare adito alle già note accuse del Partito Progressista Serbo di Vučić di essere strumentalizzati o complici attivi di una parte antagonista, usando il tema della stazione di Novi Sad solo come pretesto per un cambio forzato di governo. Dall’altro, i partiti di opposizione stessi si tengono prudentemente alla larga, non saltando sul carro all’apparenza vincente delle proteste di strada, per non dargli il bacio della morte. La questione, pare, è Politica e non politica: non si tratta di partiti ma di resettare la società serba secondo i principi della separazione democratica dei poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, che è di rado avvenuta in maniera sostanziale nella storia serba. Hanno capito, gli studenti, che perché la Serbia abbia un futuro non importa quale partito la guidi, ma che le istituzioni siano indipendenti ed i media liberi, garantendo un sano e fisiologico ricambio al potere non solo da Vučić, ma da chiunque segua dopo. I passi falsi del dopo 5 ottobre 2000 vanno evitati.
I dubbi sull’esito delle proteste
Fin qui, tutto bene. La domanda che aleggia è a che punto la componente politica debba giocoforza subentrare perché il passo successivo, la transizione da un regime alla democrazia, si possa avverare.
Alcuni sperano di bypassare il problema invocando un governo tecnico di esperti apartitici che ristabilisca i perimetri istituzionali, bonificando le strutture di potere dagli uomini di Vučić, per poi rimandare la scelta al popolo tramite libere elezioni. Già questo scenario sembra poco credibile, in quanto Vučić difficilmente abdicherà sua sponte ed in mancanza di una espressa spinta politica. Per quanto riguarda le spinte esterne, altrettanto diversa è la sua posizione rispetto a quella di Milošević di fine anni ‘90. Stati Uniti e Unione Europea ondeggiano tra l’aperto supporto all’uomo che ai loro occhi porta stabilità nella ragione, ed un muto e complice silenzio dopo tre mesi di proteste di piazza in uno dei paesi candidati all’ingresso in UE. Ci sono anche altre considerazioni geopolitiche in ballo, inclusi i più grossi giacimenti non sfruttati di litio in Europa. Se Belgrado non vale una messa, una batteria elettrica è certo altra cosa.
La questione che però nessuno fin qui ha collegato all’esito delle proteste è lo status del Kosovo. Spesso, in queste settimane, gli studenti hanno fatto riferimento alla costituzione serba (adottata nel non lontano 2006), la quale definisce, tra le altre cose, i doveri del Presidente della repubblica ed il ruolo delle istituzioni. È all’interno del perimetro costituzionale, dicono gli studenti, che bisogna tornare e stare, ed è proprio con una copia della costituzione in mano che hanno corso in questi giorni una staffetta, da Novi Sad a Belgrado, per portarne il messaggio.
C’è però un problema di fondo con la costituzione serba, e cioè gli espliciti riferimenti al Kosovo come provincia autonoma, parte integrante e non negoziabile del territorio sovrano della Repubblica di Serbia. Qui casca l’asino, perché il Kosovo è indipendente da Belgrado. Poco importa se lo strappo del 2008 sia stato unilaterale, la Serbia non controlla l’ex provincia sin dalla guerra del 1999, ben sette anni prima che la nuova costituzione dichiarasse l’opposto. Inoltre, con una popolazione di 1,8 milioni di cui il 95% di etnia albanese, fermamente opposta a qualsiasi ritorno sotto il giogo di Belgrado, e solo l’1,5% serba, nessun partito serbo, dai progressisti di Vučić alla sinistra d’opposizione, ha un piano esplicito e dettagliato su come governare l’ex provincia, anche posta l’irrealizzabile ipotesi di ristabilirvi un giorno il dominio.
Che ne pensano gli studenti, la maggior parte dei quali non era nemmeno nata ai tempi delle guerre di Milošević e delle bombe della NATO? In larga parte, niente, mentre qualcuno tra loro sventola qualche drappo con il profilo del Kosovo e la scritta “La resa non è contemplata”. E’ importante qui ribadire che qualsiasi velleità di controllo serbo sulla sua ex provincia potrebbe solamente basarsi sulla forza militare e sulla repressione fisica del dissenso albanese, come già avvenuto non solo negli anni ‘90, ma anche ai tempi del Regno di Jugoslavia, tra gli anni 1920-40.
Un dibattito onesto sulle alternative ad un Kosovo serbo non esiste nemmeno tra gli organi di stampa più progressista. Anche alle ultime elezioni politiche, pur caratterizzate da infiniti brogli, la principale e larga coalizione di opposizione “La Serbia contro la violenza” aveva esplicitamente dichiarato, pur nella più ampia ambiguità programmatica per tenere assieme una miriade di partiti opposti a Vučić, che il Kosovo rimarrà sempre parte integrante della Serbia.
D’altronde, dichiarare il Kosovo indipendente equivarrebbe a porsi fuori dall’alveo della costituzione, che nel proprio preambolo parte «[…] dal fatto che la Provincia di Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Serbia, che ha una posizione di autonomia sostanziale all’interno dello stato sovrano della Serbia e che da tale posizione del Kosovo e Metohija conseguono obblighi costituzionali per tutti gli organi statali di rappresentare e difendere gli interessi di stato della Serbia in Kosovo e Metohija, in tutti i rapporti politici interni ed esteri.» L’art. 182 della costituzione ribadisce lo stato di provincia autonoma del Kosovo e Metohija all’interno dei confini costitutiti della Serbia.
Un dibattito aperto sull’indipendenza del Kosovo potrebbe risultare problematico per diverse ragioni, e porsi addirittura fuori dal perimetro della libertà di espressione, secondo gli articoli 46 e 50 della costituzione serba, rispettivamente sulla libertà di espressione e libertà dei mezzi di informazione:
«[…]La libertà di espressione può essere limitata per legge, se necessario per la difesa del diritto e della dignità altri, per la difesa dell’autorità e imparzialità giudiziarie e per la difesa della salute pubblica, della morale della società democratica e della sicurezza nazionale della Repubblica di Serbia.» (Art. 46)
«[…]Nella Repubblica di Serbia non esiste la censura. Il tribunale competente può vietare la diffusione di informazioni e idee tramite mezzi di informazione pubblica solo se necessario per la società democratica e per evitare la distruzione violenta dell’ordine garantito dalla Costituzione o la distruzione dell’integrità territoriale della Repubblica di Serbia[…].» (Art. 50)
L’articolo 114 stabilisce il giuramento che il Presidente della repubblica è tenuto a dare al momento dell’insediamento:
«[…] “Prometto di dedicarmi con ogni mia forza alla difesa della sovranità e integralità del territorio della Repubblica di Serbia, inclusi Kosovo e Metohija come sua parte integrante, così come alla realizzazione dei diritti umani e delle libertà delle minoranze, al rispetto e alla difesa della Costituzione e delle leggi, al mantenimento della pace e della prosperità di tutti i cittadini della Repubblica di Serbia e che svolgerò i miei compiti coscientemente e responsabilmente.”»
Nel suo insieme, questi passaggi danno la dimensione del problema. La questione kosovara è un tabù che offre ampi margini di manovra al Presidente della repubblica, che ricordiamo è anche capo supremo delle forze armate, per dichiarare lo stato di emergenza e schiacciare ogni dissenso, col pretesto della difesa dei confini da ogni minaccia esterna ed interna. Qualsiasi mezzo di informazione osi intavolare un dibattito sull’indipendenza del Kosovo rischia di essere censurato, nonostante nel paese “non esista la censura”.
Nessuna democrazia può sopravvivere ai tabù. Il Kosovo rappresenta l’ultima linea di difesa per sospendere la democrazia e disciplinare l’opposizione con la forza fisica, rimanendo all’interno dell’alveo costituzionale, oltre che per bloccare qualsiasi velleità di riforma democratica del paese. Se è quasi successo in Corea, non è difficile immaginarlo in Serbia. E non è casuale che proprio in questi giorni Vučić ed il Partito Progressista Serbo abbiano lanciato una nuova campagna di distrazione di massa, riferendosi a non meglio specificate spinte separatiste nella provincia autonoma del nord, la Vojvodina, di cui Novi Sad è capoluogo. Prove generali per il Kosovo?
Gli studenti ed il più largo fronte di manifestanti contro il regime dovrebbero fare più attenzione nel domandare il rispetto della costituzione, perché potrebbe ritorcerglisi contro. Prima ancora, sta ai giovani serbi capire se e sotto quali condizioni il Kosovo sia veramente “il cuore della Serbia”, o un fardello storico che la trascina al fondo da quattro decenni a questa parte. Vučić prima o poi cadrà, come queste proteste hanno ampiamente dimostrato. Sta però alle nuove generazioni tagliare i ponti dalle colpe e dai traumi delle precedenti ed accettare appieno le implicazioni del loro motto, “O cambiamo il Paese, o cambiamo paese”, perché a parlare troppo di cambiamento senza esercitarlo il rischio è di finire come nel Gattopardo.