Processi di Baku

Cosa sappiamo dei processi di Baku

Il 17 gennaio sono cominciati a Baku i processi nei confronti di 16 ex rappresentanti dell’auto proclamata Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh). Tra gli imputati figurano tre ex presidenti della Repubblica: Arayik Harutyunyan (2020-2023), Arkadi Ghukasyan (1997-2007), e Bako Sahakyan (2007-2020), e l’ex Ministro di Stato Ruben Vardanyan, il cui procedimento giudiziario è cominciato invece il 27 gennaio. Gli imputati sono accusati di aver commesso 2548 crimini, dalla prima guerra del Karabakh negli anni 90 ad oggi.

Chi sono gli imputati

Dopo più di un anno di detenzione preventiva, sono iniziati a Baku i processi che gli armeni non avrebbero mai voluto vedere. Tra i presunti colpevoli, il caso maggiormente degno di nota è quello di Ruben Vardanyan. Oligarca armeno che ha studiato, vissuto e lavorato in Russia, ex consigliere personale di Vladimir Putin, fondatore ed ex amministratore delegato della Banca di Investimenti Troika Dialog, ma soprattutto ex Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh dal 2022 al 2023 (figura equivalente a quella del ‘Primo Ministro’). Figura chiave nel panorama politico del Nagorno Karabakh, era stato arrestato da ufficiali azeri dopo che nel settembre del 2023 aveva provato ad attraversare il confine per entrare in Armenia, in seguito al blitz di Baku a quello che rimaneva dell’Artsakh. Su di lui pendono 45 capi di imputazione, tra cui tortura, schiavitù, sequestro di persona, terrorismo, e creazione di forze armate illegali. L’imputato ha sostenuto che il suo diritto alla difesa è stato violato, in quanto non a conoscenza dei materiali del procedimento penale a suo carico, “devo essere pronto per la difesa legale.”

Oltre a Vardanyan, altri 15 individui (che verranno processati insieme) figurano sul banco degli imputati. Tra loro, gli ex Presidenti della Repubblica, ma anche l’ex Ministro degli Esteri Davit Babayan e il Presidente del Parlamento Davit Ishkhanyan. Il numero di persone riconosciute come vittime in questo procedimento penale supera il mezzo milione, tra eredi di chi ha perso la vita nelle guerre, feriti, sfollati e altre persone. Un numero impressionante. Anche Rufat Mammadov, capo dell’ufficio di Gabinetto dei ministri, partecipa al processo in qualità di vittima per conto dello stato azero. Per le accuse a loro rivolte, gli imputati rischiano l’ergastolo. I media di stato azeri si sono affrettati a nominare tali processi “Processi di Norimberga”, allusione a quelli tenuti dagli Alleati contro diversi rappresentanti della Germania Nazista dopo la Seconda Guerra Mondiale, lasciando intendere che l’esito è più che scontato. Aliyev aveva già descritto l’Armenia come uno stato in cui sarebbe presente una minaccia fascista da estirpare, esacerbando le tensioni e minando i negoziati di pace tra i due paesi.

Non solo una questa giudiziaria

Perché parlare dei processi? Perché non è solo una questione giudiziaria. I 16 imputati sono tutte figure rispettate in Armenia perché visti come “persone perbene sottoposte ad un processo ingiusto”, o addirittura come dei veri e propri martiri. Qualunque sia il giudizio si possa dare su queste persone, l’andamento e l’esito dei processi potrebbe avere ripercussioni sui negoziati di pace tra Yerevan e Baku. Da settembre 2023, l’intera regione del Nagorno Karabakh è tornata sotto il controllo diretto dell’Azerbaijan. Da allora i due paesi hanno cominciato un lungo e tortuoso negoziato per firmare un definitivo trattato di pace, normalizzare i rapporti, riconoscere mutualmente la sovranità territoriale, e aprire canali diplomatici stabili. Ad oggi, fonti armene, tra cui il Primo Ministro in persona, riferiscono che il 90% dei punti dell’accordo sono stati concordati. Per Yerevan è prioritario spingere per chiudere i negoziati quanto prima così da aprire i confini dei due paesi nell’ambito del progetto “Crossroad of Peace”. Un progetto che mira a connettere le infrastrutture regionali per favorire il commercio internazionale. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Aliyev, le esercitazioni militari al confine con la provincia di Syunik, e questi ‘processi di Norimberga’, rischiano di rallentare ulteriormente il processo di normalizzazione dei rapporti. Lo stesso Pashinyan ha accusato pubblicamente il governo di Baku di usare droghe e sostanze stupefacenti proibite contro gli armeni imprigionati per estorcere testimonianze funzionali a esacerbare le tensioni. Di tutta risposta, il Ministro degli Esteri azero ha bollato come “ridicole” le dichiarazioni del Primo Ministro armeno.

Inoltre, l’avvocato di Ruben Vardanyan, l’Americano Jered Genser, ha dichiarato che l’amministrazione Trump terrà una linea molto dura nei confronti di Aliyev sulla questione dei prigionieri armeni e non è escluso che il Presidente americano possa arrivare a fare pesante pressione diplomatica e minacciare sanzioni nei confronti delle autorità di Baku. Il motivo è prevalentemente di carattere interno. Trump ha capitalizzato molto in campagna elettorale sulla questione armena per assicurarsi negli swing states il voto della comunità armena (che è cristiana). Sistematici sono stati, infatti, gli attacchi a Biden e Harris, accusati di “non aver fatto nulla mentre 120.000 cristiani armeni venivano orribilmente perseguitati e sfollati con la forza in Artsakh”. È chiaro che i processi di Baku non sono né solo una questione di politica interna all’Azerbaijan, né tanto meno solo dei procedimenti giudiziari. Le implicazioni sono più ampie. E tra gli imputati quello che il regime teme di più è proprio Vardanyan, è lui che deve essere rovesciato. Aliyev ha bisogno di questo processo storico per voltare definitivamente pagina all’indipendenza del Nagorno Karabakh.

Foto: Ruben Vardanyan, WikimediaCommons

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