East Journal intervista Valerio Evangelista, coautore insieme a Nicolino Sapio di “Km 21. Dove le ciliegie tacevano”, un racconto che parla di storie vere, quelle di chi visse gli orrori dei lager in Bosnia-Erzegovina
TITOLO: Km 21. Dove le ciliegie tacevano
AUTORE: Nicolino Sapio e Valerio Evangelista
EDITORE: Topffer Edizioni
ANNO: 2024
Euro 16
Un frammento video di un vecchio documentario, il volto di paura di un ragazzo giovanissimo, un camion carico di prigionieri. Un fotogramma tanto eloquente quanto fuggevole. Quasi venti anni fa, Nicolino Sapio vide in TV un’immagine di guerra talmente penetrante da voler risalire, insieme a Valerio Evangelista, alla storia che le stava dietro: la deportazione di quel ragazzo su quel camion. La genesi di “Km 21. Dove le ciliegie tacevano” (Topffer edizioni, 124 pp) è tutta qui: l’ambiziosa ricerca di una storia così particolare, per raccontare una storia più grande, quella delle vittime e dei sopravvissuti alla pulizia etnica di Prijedor, nella Bosnia occidentale, dove nel 1992 le truppe serbo-bosniache rastrellarono i non serbi e convertirono edifici civili in campi di prigionia: Keraterm, Omarska e Trnopolje.
Il libro si svolge lungo i chilometri che i prigionieri percorrono in mano ai loro aguzzini, chiusi dal tendone di un camion, cui solo uno squarcio lascia intendere il mondo esterno. La narrazione è scorrevole, pilotata dai passeggeri-prigionieri, in cui si intervallano atroci racconti di guerra a momenti in cui sembra ritornare la normalità colloquiale, quella fatta di sogni sul futuro, amori di gioventù, e battute sulle squadre di calcio avversarie. East Journal ha intervistato Valerio Evangelista, coautore insieme a Nicolino Sapio del libro.
Km 21 ha una genesi particolare. Il libro nasce per ricostruire una storia a distanza di anni sulla base di un frammento video…
L’idea di Km 21 nasce da un video amatoriale girato da un soldato serbo, poi inserito in un documentario. Il filmato mostrava un ragazzo bosniaco, appena adolescente, trascinato fuori da un camion militare stipato di prigionieri. C’era qualcosa di universale nel terrore del suo sguardo: la vulnerabilità di chi è totalmente alla mercé di un’altra persona. Quell’immagine ci ha perseguitati per anni, spingendoci a immaginare la storia dietro di essa.
Inizialmente, il progetto era frammentario e incerto. Abbiamo intervistato bosniaci della diaspora, consultato archivi storici, raccolto testimonianze sul campo e studiato le mappe dei rastrellamenti e delle deportazioni. Lentamente, i pezzi si sono uniti, e hanno trovato un filo conduttore nell’area attorno alla città di Prijedor.
La narrazione del libro è costruita su storie autentiche, raccontate da persone che hanno vissuto la tragedia della pulizia etnica. Non abbiamo la pretesa di aver trovato l’identità del ragazzo del video, ma la storia che abbiamo ricostruito è tragicamente vera e rappresentativa di tante altre vite “raccolte” dai camion delle forze serbe.
Quel video è stato perciò il punto di partenza, una finestra che si è spalancata su una vicenda più grande, fatta di frammenti di umanità e di testimonianze che abbiamo voluto recuperare.
Insieme a Sapio, avete visitato più volte i luoghi in cui si svolge il racconto: sono storie che a Prijedor e dintorni sono ancora vive?
A Prijedor e nei villaggi circostanti, la memoria non si è mai davvero dissolta. Il passato è ancora presente, e non solo per la facilità con cui ci si può imbattere nelle macerie di edifici distrutti dall’artiglieria serba nel 1992.
Uno dei nostri fixer, all’epoca poco più che un ragazzo, vive a soli venti metri dal suo aguzzino. I due si incrociano spesso dal fornaio sotto casa, senza scambiarsi neanche uno sguardo.
Ma per noi fu particolarmente sconcertante conoscere il capostazione di Trnopolje, che ricopre lo stesso ruolo sin dai tempi dello scioglimento della Jugoslavia. Durante la pulizia etnica, dalla “sua” stazione transitavano i vagoni utilizzati dai convogli militari serbi. Oggi la guerra è finita, le strutture politiche sono cambiate, ma lui è ancora lì, a monitorare quegli stessi binari che un tempo tracciavano la linea tra la vita e la morte.
Per molti sopravvissuti, invece, il tempo sembra essersi fermato. Le loro case, trasformate in veri e propri memoriali di famiglia, custodiscono cimeli e ricordi, quasi come atto di resistenza all’amnesia imposta dall’alto — un oblio che si riflette negli spazi pubblici, spesso privi di riconoscimenti commemorativi ufficiali.
In effetti, questa zona della Bosnia offre una particolare geografia del terrore, dal momento che i luoghi in cui 30 anni fa sono stati compiuti crimini di guerra e contro l’umanità sono tornati ad avere una funzione civile…
Il nostro libro parte proprio dalla scuola di Trnopolje, un edificio che rappresenta in modo emblematico la geografia del terrore a cui fai giustamente riferimento. Durante la guerra, la škola fu trasformata in un campo di internamento dove nell’estate del ’92 passarono circa 30.000 non-serbi. Da lì, i prigionieri venivano smistati verso campi di concentramento o deportati oltre i confini della Republika Srpska. La škola è anche legata alla famosa copertina del TIME, che mostrava i corpi emaciati dei prigionieri dietro un recinto di filo spinato: un’immagine che rese visibile al mondo l’orrore della pulizia etnica.
Oggi, quell’edificio è tornato a essere una scuola. Non c’è alcuna lapide commemorativa. Il passato consumato tra quelle mura è taciuto dai docenti e, di conseguenza, ignorato dagli studenti. Un uomo che abbiamo intervistato, internato nel campo di Trnopolje all’età di quattro anni, ci ha raccontato che suo figlio ora studia nella stessa aula dove lui assistette a torture.
Anche Omarska è un simbolo aberrante di questa tensione tra memoria e negazione. Da miniera di ferro quale fu fino al ‘92, divenne uno dei più letali koncentracijski logor dell’area di Prijedor. Dopo la guerra, la miniera tornò attiva a fasi alterne e attualmente è di proprietà di ArcelorMittal. Nonostante le ripetute richieste dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, non vi è alcun memoriale ufficiale. L’azienda oggi permette occasionalmente l’accesso per commemorazioni e ricorrenze, ma il luogo rimane inaccessibile per gran parte dell’anno, limitando la possibilità di preservare la memoria.
In alcuni casi, su siti dove erano stati commessi eccidi sono stati creati dei cimiteri serbi, addirittura trasferendo salme da precedenti luoghi di sepoltura. Le autorità locali hanno giustificato questa operazione come una misura per una gestione più efficiente, ma secondo gli attivisti bosniaci si tratta di un modo per cancellare le tracce dei massacri e negare alle madri delle vittime un luogo dove poter piangere i propri figli.
Nella narrazione, un aspetto che colpisce è come la guerra, nelle parole dei protagonisti, sembri quasi normalizzata, una nuova condizione in cui si sviluppa la vita, un dato di fatto. Lo si evince per esempio da alcuni dialoghi che hanno vittime e carnefici sul camion…
Quando la violenza diventa quotidiana, per chi la vive si trasforma in uno sfondo onnipresente, una condizione inevitabile da accettare come parte della realtà. In questa normalità distorta, la mente umana cerca istintivamente meccanismi di sopravvivenza, piccoli appigli per non sprofondare.
Nel mio percorso professionale, ho intervistato decine di persone che hanno attraversato le tragedie più estreme. Migranti subsahariani che hanno visto i propri compagni scomparire tra le onde del Mediterraneo. Oppositori siriani torturati per aver rifiutato di recitare “Bashar è dio”. Curdi che hanno combattuto Daesh e liberato Kobane, e che oggi convivono con i traumi sviluppati solo attraverso l’uso costante di MDMA. Guerriglieri indipendentisti che hanno commesso efferati crimini. C’è un filo comune che lega queste storie: il bisogno di rifugiarsi, anche solo per un istante, in frivolezze o ricordi spensierati per sfuggire al peso dell’orrore—subìto o commesso che sia.
Nei racconti dei sopravvissuti di Prijedor abbiamo riscontrato la stessa dinamica. Tra una tortura e l’altra parlavano di calcio, di vecchi amori, di ricette, di letteratura, di cinema. A volte persino con i loro carnefici. In Km 21, questo contrasto è perciò un tema centrale. È il tentativo disperato di mantenere una parvenza di ordinarietà di fronte all’abisso. La guerra porta con sé una forma anomala e grottesca di adattamento a ciò che non dovrebbe mai essere accettabile. Ed è in questo spazio intermedio, dove il superficiale convive con il tragico, che i dialoghi dei personaggi trovano la loro forza. Rendendo la narrazione più intima, più umana, ma al tempo stesso profondamente inquietante.
Oggi Prijedor è una città della Republika Srpska, in cui vivono per lo più serbi. Credi che persista una lettura propagandista dei fatti di guerra? Vi è capitato di intervistare serbi che spezzano la narrazione nazionalista?
Parlare con i serbi è stato essenziale. Alcuni rifiutano la narrazione dominante e riconoscono apertamente la pulizia etnica come una disumana operazione pianificata. In un bar di Prijedor incontrai il figlio di un ex guardiano, bevemmo caffè insieme a un uomo che era stato torturato proprio da suo padre. I due, oggi, sono amici. Si tratta di una testimonianza straordinaria, ma purtroppo rara.
In molti casi, infatti, abbiamo riscontrato atteggiamenti di negazione o banalizzazione. Sono attivi gruppi nazionalisti che celebrano apertamente i crimini di guerra e fanno revisionismo. Vengono organizzati raduni in cui si glorificano figure come Ratko Mladić, Radovan Karadžić, e altri leader condannati per crimini contro l’umanità. Queste situazioni non vanno interpretate come farneticazioni di nostalgici estremisti; spesso sono tollerate, se non apertamente sostenute, dalle autorità locali.
Ma la propaganda non si limita alle manifestazioni pubbliche. Sulle pareti delle strade spiccano graffiti che inneggiano ai campi, mentre case realizzate decenni fa da maestranze bosgnacche – riconoscibili per il loro distintivo stile di costruzione – oggi espongono bandiere serbe, dipinte o affisse che siano. Nelle scuole locali, controllate dalla Republika Srpska, viene insegnata una versione della storia che minimizza i crimini commessi contro bosgnacchi e croati di Bosnia, perpetuando così una narrazione distorta e parziale del passato.
Ritenete che a Prijedor e in generale in Bosnia-Erzegovina ci sia stato un processo di riconciliazione o semplicemente si è voltato pagina, dimenticando quanto accaduto?
La riconciliazione in Bosnia è, purtroppo, un’illusione fragile. Gli Accordi di Dayton hanno posto fine al conflitto, ma hanno istituzionalizzato le divisioni etniche, congelando il Paese in un sistema che rafforza le identità contrapposte piuttosto che superarle. A Prijedor, questo si traduce in una memoria frammentata: luoghi che hanno visto massacri ed episodi di pulizia etnica non hanno neanche una targa commemorativa, mentre figure condannate per crimini contro l’umanità sono celebrate pubblicamente.
Ci sono iniziative locali che cercano di mantenere viva la memoria e creare spazi di dialogo che coinvolgano tutte le comunità del territorio. Ma questi sforzi sono ancora isolati e faticano a contrastare il peso di una narrativa dominante che minimizza i crimini di guerra. Senza una piena e condivisa assunzione di responsabilità storica, il processo di riconciliazione resta incompiuto.
La memoria collettiva è divisa, frammentata e spesso ostacolata da chi preferirebbe voltare pagina senza guardare indietro. Ma dimenticare il passato non significa superarlo: è solo una strada pericolosa verso nuove tensioni.