Yeltsin e Lukashenko

Quando la Bielorussia provò ad annettere la Russia

Nella Russia degli anni ’90, quella del primo McDonalds, delle file per il pane e di Boris Yeltsin, c’era spazio per ogni velleità politica. Lukashenko lo aveva capito, e provò a realizzare i suoi sogni post-sovietici. 

Una nuova federazione

Nell’ottobre 1999, forte delle elezioni vinte pochi mesi prima, Alexander Lukashenko volava su un aereo privato verso Mosca. Verso la Duma in particolare, per tenere un discorso che avrebbe potuto cambiare le sorti del neonato spazio post-sovietico. Nel frattempo, il degente Boris Yeltsin si trovava su un letto d’ospedale, rifiutando di ricevere il corrispondente bielorusso. Il presidente russo conosceva bene le intenzioni di Lukashenko, e le precarie condizioni di salute non gli permettevano di affrontare una questione così delicata.  

Partito da un piccolo villaggio nella regione di Vitebsk, dove aveva scalato le gerarchie del Partito Comunista locale, Lukashenko era diventato presidente della Bielorussia nel 1994. Nato sovietico, difficile dire se egli si sentisse parte della nazione bielorussa. Ma di certo non era quest’ultima a muovere l’azione politica del giovane presidente, che ben presto iniziò a sentire strette le stanze di Minsk. La sua sete di potere lo portò alla creazione, nel giro di pochi mesi, di un nuovo progetto politico basato sulla riunificazione di Russia e Bielorussia: una Federazione post-Sovietica, della quale Lukashenko sarebbe stato il monarca assoluto. 

Il dialogo tra i due paesi avrebbe seguito un percorso graduale, poggiato su un’integrazione di carattere economico (modello UE) alla quale gradualmente si sarebbe data una forma sempre più politica. Passando quindi da un’unione sopranazionale ad una confederazione, da un mercato unico ad uno stato unico. Di fatto, Lukashenko voleva ridar vita al defunto gigante sovietico, con la cui scomparsa nessuno aveva ancora davvero fatto i conti. In un tale contesto, l’identità nazionale russa avrebbe preso il posto di quella sovietica, emarginando del tutto la componente bielorussa. 

Il tutto era reso possibile dalla precaria condizione sociale ed economica in cui da anni versava la Russia. Un’instabilità che non sembrava risolversi e che anzi assumeva sempre di più delle forme tragicomiche, ben rappresentate dalla figura di Boris Yeltsin, la cui credibilità politica era scaduta nel giro di pochi anni. La sua via al capitalismo aveva creato ulteriori drammi ad un popolo già deturpato dalla stagnazione degli anni ‘80, rendendo così ammissibile qualsiasi alternativa -soprattutto se imbevuta di nostalgismo sovietico.  

Dall’altra parte poi, al contrario, Lukashenko guadagnava sempre più popolarità. Complice la giovane età, appena 40 anni, era percepito come una figura forte e credibile, apparentemente lontano da quel senso di deterioramento e corruzione che aveva caratterizzato molti dei suoi colleghi prima e dopo il 1991. Un divario plasticamente espresso nel confronto con Boris Yeltsin, in cui Lukashenko si trovava in una condizione di manifesta superiorità, non solo morale ma anche fisica. Una condizione che faceva del presidente bielorusso un’alternativa sempre più credibile anche agli occhi dei cittadini russi. 

Il discorso di Lukashenko

Nell’aprile 1996 fu posta la prima pietra, con la firma del trattato per instituire la “Comunità della Russia e della Bielorussia”. E un anno dopo la seconda, con il “Trattato di unione” tra i due paesi. La linea era ormai tracciata e nei due anni successivi si lavorò all’accordo finale per la creazione di uno stato unico. Nel frattempo, le condizioni di salute del presidente Yeltsin erano visibilmente peggiorate, mentre il corrispettivo bielorusso faceva sempre più parlare di sé. 

Torniamo così all’ottobre caldo del 1999, con Lukashenko a Mosca e Yeltsin in ospedale. Ai microfoni della Duma, il presidente bielorusso si presentò ufficialmente alla nazione russa che, ormai esasperata, sempre di più sentiva il bisogno di personalità politiche forti, in grado di ridare dignità ad una popolazione affogata nel fango degli anni ‘90.  

Quel giorno Lukashenko riuscì a parlare a tutti gli strati della popolazione. Riferendosi ai più nazionalisti promise di chiudere con i soldi del FMI, affermando che esso riducesse il prestigio mondiale della Russia. Parlando all’elettorato liberal-progressista invece, presentò la Bielorussia come un canale fondamentale per il dialogo con l’Europa e con gli Stati Uniti. E guardando ai nostalgici infine, definì il crollo dell’URSS come la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo; una frase che negli anni a seguire, alle stesse latitudini, avrebbe trovato particolare fortuna. Di fatto, senza volerlo Lukashenko aveva anticipato gran parte del discorso neo-imperiale che avrebbe accompagnato l’ascesa di Vladimir Putin nel primo decennio del nuovo secolo.  

A dicembre dello stesso anno, il “Trattato sulla creazione di un’unione tra Russia e Bielorussia” veniva siglato a Mosca. Una sola costituzione, una moneta unica, una bandiera, un inno e un esercito comune. E soprattutto, un solo Capo di stato. Lukashenko sembrava arrivare puntuale al suo secondo appuntamento con la storia. 

Fine dei giochi

Ma poco dopo, all’alba del nuovo millennio, Yeltsin dimostrò di essere pienamente consapevole di ciò che stava accadendo. All’ultima mano scoprì la sua carta: un ex agente del KGB, coetaneo di Lukashenko, da poco diventato Primo Ministro ma ancora sconosciuto ai molti. 

L’ascesa di Vladimir Putin al gradino più alto del Cremlino cambiò tutto nei rapporti tra Russia e Bielorussia. La sua prima visita da Presidente della Federazione fu proprio a Minsk, dove mise in chiaro che l’aria a Mosca era cambiata. Nell’estate del 2000 poi, propose il suo piano, ricalcando quello di Lukashenko: Bielorussia integrata e divisa in 7 regioni federali, referendum sull’integrazione ed elezioni parlamentari. Il tutto si sarebbe dovuto concludere con le elezioni presidenziali, di fatto un vis a vis tra Putin e Lukashenko. Quest’ultimo rifiutò, dichiarando di essere pronto a lavorare ad un’integrazione securitaria ma non politica. 

Si interruppe così il sogno di una riunificazione post-sovietica, lasciando ad ognuno il proprio stato nazionale. Rimase integro solo il Trattato di Unione tra i due paesi, valido ancora oggi. Dopo una iniziale fase di allontanamento dalla Russia, Lukashenko si piegò definitivamente alla cruda realtà, di fatto cedendo le chiavi del paese al nuovo inquilino del Cremlino.  

In ogni caso, il grande assente di questa storia è senza dubbio il popolo bielorusso. Minsk infatti non ha mai fatto nulla per preservarne, ne tantomeno coltivarne, i caratteri nazionali. La lingua è stata sopraffatta da quella russa; la cultura e la storia da quella sovietica. E se fosse stato per Lukashenko, ad oggi, la Bielorussia non esisterebbe nemmeno nella sua forma geografico-politica. 

Fonte immagine: Associated Press

Chi è Livio Maone

Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Roma Tre. Attualmente è studente magistrale all’Università di Bologna.

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