Il rapporto fra Cristianesimo e Iran ha radici lontane. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che, durante la Pentecoste, tra i primi a convertirsi alla nuova fede c’erano proprio Persiani, Parti e Medi (tre grandi popoli dell’Iran). Ma fu durante la dinastia Sasanide che questi primi contatti divennero più importanti e duraturi.
Periodo Sasanide
Nel 224 d.C., Ardashir I spazzò via l’antica dinastia dei Parti e fondò il regno Sasanide, mantenendosi però nel solco della vecchia rivalità nei confronti dei Romani.
Mentre l’universalismo era il tratto distintivo dell’impero romano e della fede cristiana, come affermava Eusebio di Cesarea: “Un solo Dio è annunciato a tutti, un solo impero si erge per accogliere e abbracciare tutti”, ben diversa era la visione dell’impero Sasanide e della religione zoroastriana. Gli iraniani sostenevano che la complessità della natura umana e la sua intrinseca inclinazione al male rendessero utopistica l’idea di una monarchia universale. Nella visione sasanide, Rūm (l’impero romano) e Iranshahr (il regno degli iraniani) rappresentavano per volontà divina i due poli della civiltà: usando le parole del re Kavād I, “la luna dell’Occidente e il sole dell’Oriente“.
L’opera di Diocleziano di riassetto dell’impero romano, seguita dal trasferimento di Costantino a Costantinopoli, segnò un decisivo spostamento degli equilibri politici verso oriente. La frammentazione dell’Impero romano generò problematiche complesse, poiché i sovrani sasanidi riconoscevano come legittimo solo un potere sovrano equivalente. Per sciogliere questo dilemma teologico-politico, i Sasanidi decisero di rivolgersi esclusivamente agli imperatori di Costantinopoli, conferendo loro il titolo di Cesare. Di fatto, la parte occidentale dell’impero cessò virtualmente di esistere nel racconto politico iraniano. Da quel momento, per l’Iran, la Chiesa orientale divenne il punto di riferimento spirituale, recidendo simbolicamente i legami con il papato romano. La Chiesa d’Oriente, autonoma dalla cattolicità romana, fu quindi la vera artefice della cristianizzazione in terra iraniana.
La caduta dei sasanidi nel 650, l’arrivo dell’Islam e i turbolenti anni dell’alto medioevo che seguirono segnarono un deterioramento sensibile nei rapporti tra il continente europeo e il mondo iraniano.
Periodo mongolo
Durante le prime crociate in Europa serpeggiava una voce suggestiva: l’avvento di un misterioso alleato cristiano proveniente dall’Oriente, un miraggio che si infittiva soprattutto dopo le sconfitte dei Crociati. Prendeva forma la leggendaria figura di Prete Gianni (immortalata nel Baudolino di Umberto Eco), un eroe mitico destinato a redimere la cristianità. Una delle presunte imprese attribuite a lui fu la battaglia di Qatwan nel 1141, presso Samarcanda, dove, in realtà, i Selgiuchidi vennero sconfitti dai Qara Khitai, una dinastia mongola dell’Asia centrale. Sebbene i Khitai fossero buddisti, la presenza nella regione di consistenti comunità nestoriane alimentò la favola. La scarsa familiarità dell’Europa con il buddismo spinse molti a immaginare che, non essendo musulmani, quei condottieri mongoli dovessero necessariamente essere cristiani. Nel 1221 invece, durante la Quinta crociata, le leggende si intrecciarono nuovamente con la travolgente espansione dell’Impero di Cinghis Khan. I Crociati cominciarono a immaginare un misterioso “sovrano cristiano delle Indie” intento a combattere i musulmani in supporto alla cristianità. La speranza era così intensa che persino Papa Onorio III, in una missiva del 20 giugno 1221, accennò a presunte “forze provenienti dall’estremo oriente per salvare la Terra santa“. In realtà però, Cinghis Khan era sciamanista, nonostante amasse consultare sacerdoti cristiani e musulmani, mostrando una preferenza per i primi. I suoi figli avevano sposato principesse cristiane che godevano di notevole influenza presso la sua corte, circostanza che probabilmente alimentò la convinzione che egli fosse cristiano.
Mentre gli storici hanno tradizionalmente descritto l’irruzione mongola del XIII secolo in Iran come un’apocalisse, una lettura più sfaccettata suggerisce una prospettiva diversa. Benché motivati dalla conquista e distruzione, i loro eserciti squarciarono quel velo che, per secoli, aveva separato l’Oriente e l’Occidente. Le prime comunicazioni ufficiali tra l’Europa occidentale e l’Impero mongolo si dipanarono come un complesso dialogo, dove lettere e messi attraversavano distanze sconfinate, impiegando talvolta anni per giungere a destinazione. Si delineò ben presto un copione diplomatico ormai consolidato: gli europei supplicavano i mongoli di abbracciare la fede cristiana, mentre i dominatori delle steppe rispondevano con richieste di sottomissione. Una sfumatura linguistica aleggiava persino nel vocabolario: la parola turca impiegata per “pace” per i mongoli era la stessa usata anche per esprimere sottomissione. In altre parole non poteva esserci pace con i Mongoli in assenza di sottomissione.
Dopo la perdita di Gerusalemme per mano degli Ayyubidi nel 1244 e la seguente disfatta nella Battaglia di al-Harbiyya e dopo diverse invasioni mongole in Europa centrale, i sovrani cristiani iniziarono a vagheggiare di un nuovo alleato: i Mongoli – a patto che rinunciassero ai loro culti ancestrali. Papa Innocenzo IV, nel marzo del 1245, diede vita a una missione diplomatica dove il francescano umbro Giovanni di Pian del Carpine, coetaneo oltre che tra i primi compagni di Francesco d’Assisi, fu incaricato di portare le missive pontificie fino a Karakorum, tra cui la lettera “Cum non solum”, nella quale il Papa supplicava il sovrano mongolo di deporre le armi e abbracciare la croce. Di questo viaggio di Del Carpine ci rimane l’Historia Mongalorum, il primo tentativo europeo a provare a raccontare la storia mongola. Del Carpine raggiunse Karakorum il 24 agosto 1246, mentre Güyük veniva eletto nuovo Khan dei mongoli, e riportò la sua risposta, scritta in persiano, al papa. Un diktat che suonava più come una minaccia che un invito al dialogo:
“Voi dovete dichiarare con un cuore solo: siamo a voi sottomessi, e vi sottomettiamo le nostre forze. Devi venire di persona con tutti i tuoi re, senza eccezioni, e portare tributi in omaggio. Solo a queste condizioni accetterò la vostra sottomissione. Se non seguirete gli ordini di Dio, e vi schiererete contro i miei ordini, vi riconoscerò come miei nemici.”
Una seconda missione, guidata dal domenicano cremonese Ascelino di Lombardia, incontrò il comandante mongolo Baiju presso le rive del Mar Caspio. Questo, mentre meditava la conquista di Baghdad, accolse con favore solo l’idea di un’alleanza, inviando messaggeri a Roma però con parole cariche di diffidenza nel comprendere il messaggio del Papa a convertirsi al cristianesimo:
“Tu, Papa, sappi che i tuoi messaggeri sono venuti a trovarci e ci hanno portato le tue lettere. Ci hanno fatto strani discorsi, e non sappiamo se tu hai ordinato loro di pronunciare queste parole, e se lo hanno fatto di loro spontanea volontà”.
Aïbeg e Serkis, gli ambasciatori mongoli, tornarono un anno dopo recando una nuova lettera papale, “Viam agnoscere veritatis”, un ulteriore appello alla cessazione delle ostilità.
In quest’era di relativa stabilità e apertura, Genova e Venezia avevano già piantato le loro radici diplomatiche in Iran con i loro consolati a Tabriz. La dominazione mongola aveva abbattuto le barriere, rendendo i viaggi possibili e relativamente sicuri. I primi mercanti italiani si stabilirono in Iran già nel periodo iniziale della dinastia Ilkhanide: il testamento di Pietro Viglioni del 1264 a Tabriz rappresenta il primo documento di questa nuova frontiera. Il documento fornisce un inventario straordinariamente dettagliato dei beni di Viglioni durante il suo soggiorno in città. Il viaggio di Marco Polo, lungi dall’essere un’avventura isolata, si inseriva in questo contesto di scambi e curiosità, dove monaci, mercanti e diplomatici tessevano una rete di relazioni multilaterali.
L’arrivo a Roma del monaco nestoriano Rabban Bar Sauma nel 1288 rappresenta un momento di estremo interesse storico. Partendo dalla Cina intraprese il suo viaggio in Europa (visitò persino Bordeaux), portando doni e lettere da Argun Khan all’imperatore romano d’Oriente, al Papa e ai re europei, a cui si aggiungevano le missive dai francescani di Tabriz. Rabban viaggiò con un vasto seguito di assistenti e 30 animali da sella. Tra i compagni c’era il genovese Tommaso d’Anfossi, che lo aiutò come interprete. Rabban probabilmente non parlava nessuna lingua europea, e gli europei comunicavano con lui in persiano. I viaggi di Rabban avvennero prima del ritorno di Marco Polo in Europa e i suoi scritti offrono un punto di vista inverso, dell’Oriente che guarda all’Occidente.
Nell’ombra delle grandi narrazioni storiche, emerge la figura di Buscarello di Ghisolfi, genovese nelle guardie reali mongole, inviato dall’imperatore Argun presso i sovrani europei per portare proposte di alleanza contro i Mamelucchi d’Egitto. Nel 1289 si presentò alla corte di Filippo IV, nel 1290 raggiunse Edoardo I a Londra, e tornò a Roma nel dicembre 1290. A Buscarello fu affidata una nuova missione da Ghazan Khan, al quale aveva portato una lettera del papa nel 1301. Portò lettere del khan e del patriarca dei nestoriani, Yahballah III, a Edoardo I nel 1303.
Successivamente Papa Niccolò IV intrecciò relazioni profonde con il sovrano Argun, inviando missionari che attraversarono l’Iran, tra questi spiccava missionario francescano Giovanni Montecorvino, destinato a diventare il primo arcivescovo della Chiesa cattolica cinese a Khanbaliq (Pechino). Nel 1289, a Tabriz furono fondati un convento domenicano e due francescani.
Il 1318 segnò un momento cruciale: papa Giovanni XXII emanò una bolla e istituì Soltaniyeh (capitale ilkhanide) come sede metropolitana, nominando Franco di Perugia quale primo arcivescovo. Con questa bolla il papa creò una seconda provincia ecclesiastica nel vasto Impero mongolo, dopo quella di Khanbaliq, da cui, fino a quel momento, dipendevano tutte le diocesi latine erette in quegli anni in Asia. Una gerarchia ecclesiastica che si dispiegava in tutto l’Iran, con vescovi a Tabriz e Maragheh, tutti sotto la guida dei domenicani. Tra i missionari più celebri collegati alla fondazione dell’arcivescovado di Soltaniyeh c’è il francescano Odorico da Pordenone (immortalato nel Pendolo di Foucault). “Nell’anno 1318 io, frate Odorico di Porto Maggiore del Friuli, partii…“: il suo viaggio attraverso Armenia, Tabriz, Soltaniyeh, Kashan, Yazd, toccando il Golfo Persico e Hormuz, rappresenta una fonte straordinaria per comprendere l’Iran ilkhanide e non solo.
Periodo timuride
La parabola degli Ilkhanidi declinò inesorabilmente verso la fine del XIV secolo e l’avvento di Tamerlano (Timur-e Lang, ossia Timur lo zoppo) sconvolse gli equilibri che sembravano consolidati. Eppure persino in questo periodo di turbolenze Timur inviò Giovanni III, arcivescovo di Soltaniyeh, a Venezia, Genova, Parigi e Londra con la notizia della sua vittoria sugli Ottomani nel 1402. In questo scenario complesso emersero figure come Nicolò De’ Conti, viaggiatore e mercante che negli anni Venti del Quattrocento esplorò l’Asia. I suoi resoconti influenzarono profondamente la cartografia del XV secolo europeo: la Mappa Genovese e il mappamondo di Fra Mauro testimoniano come i suoi viaggi avessero ridisegnato la comprensione europea del mondo conosciuto.
Si chiudeva così un tempo sospeso tra due mondi, dove le mappe non segnavano solo coste e montagne, ma osavano di sognare le rotte dell’anima umana. Segni e sogni fatti da uomini in cammino. L’era dell’Homo Viator aveva i giorni contati.
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