Belgrado proteste studentesche

SERBIA: Belgrado è (di nuovo) il mondo?

Beograd je opet svet, recitava lo striscione sorretto dagli studenti che hanno guidato il corteo di protesta tenutosi nella capitale serba lo scorso 22 dicembre. In una piazza Slavija gremita di cittadini, le torce dei cellulari hanno illuminato la notte belgradese per un quarto d’ora, per commemorare le quindici vittime del crollo della tettoia della stazione di Novi Sad, avvenuto il primo novembre.

Sin dai giorni successivi alla tragedia, l’indignazione popolare si è catalizzata nelle proteste partite degli studenti della facoltà di arti drammatiche, la cui aggressione, da parte di persone non ancora identificate, durante il loro tentativo di chiedere giustizia, ha poi portato all’occupazione della facoltà e al blocco delle attività universitarie, con immediato sostegno dei loro colleghi e della società civile.

Lo slogan della manifestazione non è casuale, bensì un rimando alle proteste studentesche dell’autunno-inverno del 1996-97, quando i giovani camminarono dietro la scritta Beograd je svet (Belgrado è il mondo). Ma quante affinità ci sono realmente tra gli ultimi grandi moti studenteschi prima della caduta di Milošević e quelli attuali?

Le ragioni delle due proteste, fermarsi per non regredire

Idemo Dalje (Andiamo avanti), era il motto del Partito socialista serbo (SPS) allora al potere per la campagna elettorale delle elezioni amministrative del 17 novembre 1996, i cui risultati favorevoli all’opposizione, al tempo rappresentata dalla coalizione Zajedno (Insieme), non furono riconosciuti dal governo.

I brogli elettorali furono la prima ragione che spinse gli studenti ad insorgere, con delle richieste iniziali che si limitarono all’istituzione di una commissione indipendente per accertare l’esito reale del voto, e al chiedere  le dimissioni del rettore e del vice rettore dell’università, considerati vicini al regime.

Solo il 9 gennaio, quando la questione si era internazionalizzata, gli studenti chiederanno ufficialmente di riconoscere i veri risultati delle urne. E avere gli occhi del resto del mondo su di sé, è ciò che spinse il team di marketing della proteste studentesche Šta hoćeš (Cosa vuoi), a concepire lo slogan che passerà alla storia: Beograd je svet. Affermare che Belgrado era il mondo, in quel momento storico, significava mettere di nuovo sulla mappa un paese isolato a causa delle recenti guerre in Croazia e in Bosnia.

Animati dalla stessa idea, oggi, gli studenti della FDU (Fakultet Dramskih Umetnosti, facoltà di arti drammatiche) hanno scelto di riprenderlo per attirare l’attenzione dei media internazionali, chiedendo al contempo in un volantino diffuso sui social, sempre al grido di Svi u Blokade, solidarietà e appoggio ai propri colleghi delle università europee e mondiali.

La loro rivolta non nasce dalla richiesta di riconoscere dei risultati elettorali, quanto dalla necessità di dare un volto a quelle mani, insanguinate e colpevoli, dietro la tragedia di Novi Sad. Ma indirettamente le proteste, appoggiate dalla maggior parte della società civile, sono spia della fragilità di un governo che non sembra intenzionato a identificare i responsabili.

Si tratta dello stesso governo, a guida del Partito Progressista Serbo (SNS) il cui successo alle elezioni dello scorso anno, non senza polemiche su possibili brogli, arrivò con una campagna elettorale incentrata sul motto Srbija ne sme da stane (La Serbia non deve fermarsi), non troppo dissimile da Idemo Dalje del partito socialista nel 1996. Oggi come allora, per interrompere la continuità al potere era necessario bloccarlo e riappropriarsi degli spazi vitali in cui era penetrato.

Rumore e ironia

Per fare ciò, nel 1996, si invitarono i dimostranti a camminare, šetati se, per riprendere possesso dei luoghi nevralgici della capitale, da Trg Republike a Terazije, e delle principali città serbe in cui andarono in scena le proteste. Ma anche attraverso raduni di fronte ai gangli vitali del potere. Negli anni novanta gli studenti si diedero appuntamento di fronte alla sede di RTS, la radiotelevisione serba, ogni sera alle 19:30 in punto, facendo quanto più rumore possibile con fischietti e pentole per sovrastare la disinformazione della tv di regime, un’azione che prese il nome di Buka u modi (Il rumore è di moda).

Lo stesso è accaduto nel pomeriggio dello scorso venerdì 17 gennaio, con un fiume di giovani e cittadini riunitisi, per la seconda volta dall’inizio dei blocchi, davanti al palazzo di RTS, provocando quanto più frastuono possibile fino ai canonici 15 minuti di silenzio per commemorare le vittime, il tutto in un clima piuttosto teso per via di quanto accaduto il giorno precedente, quando una ragazza è stata investita da un’auto di fronte alla facoltà di legge.

Fischietti, pentole, rumore, e tanta ironia, sintomo di un fatalismo tutto serbo che non può mai mancare nei momenti più critici. Così il corteo avanzava dietro la scritta Vaše pravo da znate sve (Il tuo diritto di sapere tutto), accompagnato dalla domanda Znate li sve? (Voi sapete tutto?), mentre un panino gigante girava tra la folla con delle candeline per “festeggiare” i 71 anni del direttore generale di RTS, Dragan Bujošević.

Campagna contro città?

L’immagine del panino è ricorrente nel lessico politico serbo, accomuna le due proteste a distanza di anni, e solleva alcune questioni sociologiche sui partecipanti.

Nisu svi penzioneri sendvičari(Non tutti i pensionati sono dei paninari), si legge su un cartello di un anziano signore durante uno dei cortei. Sendvičari è il termine dispregiativo con cui vengono indicati coloro che per 1000 dinari e un panino partecipano, sotto ricatto o minaccia di licenziamento, ai comizi pre elettorali di SNS, arrivando a Belgrado principalmente dalle zone rurali.

Uno schema ricorrente considerando che, anche nel 1996, i dimostranti accusarono coloro che avevano partecipato al Kontramiting, la contromanifestazione organizzata da Milošević a sostegno del regime, di essere dei seljaci, contadini portati in città dalle campagne che si erano venduti per un pasto gratis.

L’analogia testimonia una persistente dicotomia nella società civile serba, lo scontro tra città (grad) e villaggio (selo), nonché la possibilità di leggere nuovamente le proteste come il tentativo del cittadino, inteso quale soggetto politico educato e civilizzato, di riappropriarsi di Belgrado e del potere, ormai in mano ai dosljaci, i nuovi arrivati delle campagne, gente considerata dalla popolazione urbana come primitiva e ineducata.

Eterogeneità e disillusione

Dal punto di vista sociologico, le proteste del 1996 avevano una base piuttosto omogenea di partecipanti giovani o di mezz’età, istruiti, urbanizzati e appartenenti alla classe media. Tuttavia, come oggi, i loro ideali politici spaziavano dal pacifismo, al liberalismo fino al nazionalismo più ostinato, come dimostra la recente presenza del klub 451 alle proteste.

Nel febbraio del 1997, quando le proteste si conclusero con l’approvazione di una legge speciale che riconosceva la vittoria dell’opposizione in alcune città tra cui Belgrado, una simile eterogeneità di vedute era presente anche nella coalizione Zajedno, che ben prestò si sfaldò e disattese le aspettative dei propri sostenitori.

Non è altro che l’ennesima analogia con la situazione attuale, probabilmente la più frustrante per chi è sceso in strada ed è consapevole che senza un’opposizione con interessi convergenti, al momento inesistenti, poco o nulla cambierà sul piano politico.

Foto: Nova.rs

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Chi è Lorenzo Serafinelli

Classe 1999, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università di Roma, la Sapienza. Attualmente, presso lo stesso istituto, sta conseguendo la laurea magistrale in Relazioni Internazionali e sicurezza globale. Esprime la sua passione per la storia e l'attualità dei Balcani Occidentali scrivendo per East Journal da luglio 2022.

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