Il Tagikistan sogna di affermarsi come attore chiave nella geopolitica centro asiatica attraverso il mastodontico progetto della diga di Rogun. La Banca Mondiale sostiene attivamente il progetto con studi e valutazioni e oggi sta considerando di finanziarlo direttamente su richiesta del governo tagiko, potenzialmente dando la svolta definitiva che Dushanbe cerca. Tuttavia, sono in molti ad esprimere dubbi, a cominciare dal vicino Uzbekistan che vede nella diga una vera e propria minaccia esistenziale.
La diga di Rogun è un sogno nazionale
Nella complessa rete di rivalità e interdipendenze dell’Asia Centrale, la gestione delle risorse idriche rappresenta una delle questioni più sensibili e controverse. Tra queste spicca il progetto della diga di Rogun, situata sul fiume Vakhsh, nel cuore del Tagikistan, destinata a diventare la più alta del mondo con i suoi 335 metri. Per il governo tagiko, Rogun non è solo un’infrastruttura strategica, ma un simbolo di indipendenza energetica e un pilastro per rilanciare lo sviluppo economico del Paese. Con una capacità di produrre 13,3 miliardi di kilowattora di elettricità all’anno, la diga consentirebbe al Tagikistan di raddoppiare la sua produzione energetica, garantendo l’autosufficienza ma anche la possibilità di esportazione verso paesi vicini come Afghanistan e Pakistan.
L’idea della diga risale all’epoca sovietica, concepita per rafforzare il sistema energetico della regione. Ma il crollo dell’URSS e la guerra civile in Tagikistan negli anni ’90 interruppero i lavori. Negli ultimi anni, il progetto è tornato al centro dell’agenda politica del Paese, tanto che il presidente Emomali Rahmon l’ha definito una questione “di vita o di morte”. Oltre a garantire l’indipendenza energetica, la diga rappresenta per il Tagikistan un’occasione unica per affermarsi come potenza regionale, aumentando la sua statura geopolitica. Il governo tagiko ha cercato
finanziamenti non solo dalla Banca Mondiale, ma anche da altre istituzioni internazionali, come la Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture e la Banca Islamica per lo Sviluppo. Altro sponsor del progetto poi non può che essere la Cina la cui influenza sulla diga fa parte di una strategia più ampia di espansione della sua presenza in Asia Centrale attraverso la Belt and Road Initiative.
In molti hanno (legittimi) dubbi
Il progetto è al centro di accese dispute con l’Uzbekistan, che teme gravi ripercussioni sulla sua agricoltura, quasi interamente dipendente dalle acque dell’Amu Darya, di cui il Vakhsh è un affluente. Sotto la presidenza di Islam Karimov, Tashkent ha sempre osteggiato duramente il progetto, arrivando a minacciare un intervento militare per quella che ha definito una questione “esistenziale”. Sebbene i rapporti tra Tagikistan e Uzbekistan si siano distesi negli ultimi anni, una nuova impennata dei lavori potrebbe riaccendere le tensioni e non è da escludere che Tashkent possa tornare a considerare la minaccia di un azione concreta. Il timore uzbeko è che la diga possa ridurre drasticamente il flusso dell’Amu Darya, cruciale per l’agricoltura del Paese, in particolare per le coltivazioni di cotone e grano che dipendono totalmente dall’acqua del fiume.
L’Uzbekistan vive una relazione simbiotica con l’Amu Darya, paragonabile a quella dell’Egitto con il Nilo, e la riduzione del flusso idrico durante i mesi estivi, essenziali per le colture, rappresenterebbe una grave minaccia per la sua economia. Le preoccupazioni però riguardano anche altri aspetti: gli effetti ambientali del progetto potrebbero alterare gli ecosistemi fluviali e mettere ulteriore pressione sul già fragile lago d’Aral, alimentato dall’Amu Darya e dal Syr Darya.
Infine, i lavori hanno comportato anche problematiche di carattere umanitario in quanto già 7000 persone sono riamaste sfollate e il numero potrebbe salire fino a 60.000, provocando quindi un notevole impatto sociale oltre che ambientale. Diminuire l’altezza della diga come chiedono molte organizzazioni ambientaliste come Rivers without Boundaries potrebbe ridurre il numero di persone che rischiano di rimanere sfollate, mitigare i danni ambientali, e ridurre le tensioni regionali oltre che risparmiare sui fondi.
Acqua: serve un nuovo paradigma
In Asia Centrale, la gestione delle risorse idriche non pone solo questioni ingegneristiche, ma geopolitiche. La diga di Rogun incarna il rapporto complesso tra l’uomo e l’acqua, una risorsa che, in quanto res publica, sfida la proprietà privata e richiede una gestione collettiva trans-nazionale. Tuttavia, nella regione manca un vero modello di cooperazione. Il fallimento degli accordi regionali ha portato alla crescente securitizzazione delle risorse idriche. Sebbene il consumo incontrollato e i cambiamenti climatici rappresentino problemi rilevanti, le dispute sull’acqua derivano soprattutto dalle politiche di allocazione che non sono mai state cambiate. L’unico accordo multilaterale, l’Almaty Agreement del 1992, ha mantenuto invariate le quote d’acqua stabilite in epoca sovietica, ignorando i nuovi confini emersi dopo il crollo dell’URSS. Secondo tale sistema, i paesi della regione più ricchi di acqua, Tagikistan e Kirghizistan, dovevano fornire ad Uzbekistan, Turkmenistan e Kazakistan acqua per l’agricoltura in primavera e in estate. In cambio, gli stati a valle dovevano fornire gas e carbone Bishkek e Dushanbe. Con il crollo del regime sovietico però, le cinque repubbliche centro asiatiche sono entrate nella nostra geografia mentale diventando stati sovrani e indipendenti. L’intera architettura idrica regionale deve quindi essere riformata radicalmente, sia cercando sistemi più sostenibili di irrigazione ma anche rafforzando (o per meglio dire, creando) una cooperazione regionale ad oggi praticamente inesistente.