Un dialogo con l’autrice del romanzo “Il vento da est” sul rapporto tra Est e Ovest e sui temi cardine del libro.
“Mentre il resto del mondo aveva la cortina di ferro, la Jugoslavia aveva Trieste, la città italiana più conosciuta all’Est, così divenne parte delle mappe mentali degli jugoslavi che impararono a conoscerla”.
Così Tatjana Đorđević descrive Trieste, la città a cavallo tra l’occidente ed il vicino oriente che ospita, non a caso, il suo secondo romanzo, “Il vento da est” (124pp) pubblicato da Robin Edizioni.
Djordjevic, giornalista serba che vive e lavora in Italia da più di vent’anni, racconta la storia di Ana, ragazza serbo-croata fuggita dalla Croazia durante il conflitto di dissoluzione jugoslava, e Michael, giovane britannico, figlio di una famiglia dell’alta borghesia londinese dove denaro e status sociale governano i rapporti personali.
Le vite dei due protagonisti si incrociano in Italia, dove entrambi arrivano, l’una in cerca di una vita migliore, e l’altro in fuga dal peso opprimente della sua famiglia. Nella cornice triestina i due intrecciano una relazione d’amore intensa e complessa, dove il passato e il presente si fondono in un racconto che va oltre le vicende personali. Attraverso le differenze culturali che li separano, la storia diventa uno spunto di riflessione sulle dinamiche familiari, così come sulle diversità tra est e ovest. East Journal ha intervistato l’autrice per presentare il suo libro andando ad indagare i principali temi che lo caratterizzano.
Sia per Ana che per Michael il rapporto con la figura materna è molto approfondito. C’è un richiamo alle culture d’origine dei due protagonisti nel loro rapporto con le rispettive madri?
Sì, nel libro il paragone tra il rapporto madre/figlio e madre/figlia rappresenta anche la differenza culturale tra l’occidente e l’Europa dell’est. Le madri dei protagonisti sono entrambe presenti ma distaccate, ma lo sono in due modi diversi. La madre di Ana è una donna autoritaria e rigida, che vuole avere il controllo sulla vita della figlia. In ex Jugoslavia questo era un elemento ricorrente, legato alla cultura comunista, al concetto di collettivismo e all’impronta educativa che spingeva i genitori a desiderare che i figli diventassero forti. In quel periodo era molto difficile che un genitore ti chiedesse “come stai?”. L’individuo veniva al secondo posto, e questo spiega il comportamento della madre di Ana.
La madre di Michael, d’altra parte, più che un distacco ha un disinteresse nei confronti del figlio. Il suo atteggiamento è il riflesso della civiltà occidentale, dell’individualismo. Per la madre di Michael la cosa più importante è che il figlio diventi una persona di successo, e qualsiasi vuoto emotivo, secondo lei, si può colmare con il denaro o con il lusso.
In entrambi i casi i personaggi vivono una genitorialità discutibile, che sarà poi fonte di disagio nella loro vita futura. Ana, da una parte, diventa una persona con una forte dipendenza affettiva che la spinge anche a scelte sbagliate. Michael, d’altro canto, diventa insicuro e un po’ superficiale.
La memoria è un tema cardine nel libro e di sviluppa soprattutto in relazione al personaggio di Ana. Ci parli di questo elemento e di come influisce nella vita dei protagonisti?
La memoria è molto importante nel romanzo, così come lo è il tema della colpa. C’è un richiamo al passato, soprattutto per Ana perché è lei l’unica che decide di affrontarlo. Torna nella sua terra natia, va a trovare la madre. Affrontare il passato è una scelta; una scelta difficile che Ana fa perché è l’unico modo per dare una svolta alla sua vita. E, grazie alla memoria, al confronto con il suo passato e con i suoi disagi, diventa più matura. Michael, invece, è un personaggio più statico, che non affronta il suo passato, che non sceglie, ma Ana non gliene fa una colpa.
Ed ecco il secondo tema, quello della colpa, che porta con sé un altro richiamo culturale. Nei popoli balcanici c’è la grande tendenza a puntarsi il dito a vicenda, perché è molto semplice rimpallarsi colpe storiche, legate ai conflitti del ‘900, senza però riconoscere le proprie. Ana, nel suo piccolo, esce da questo schema. All’inizio era una persona che incolpava la madre per i propri disagi, incolpava i serbi per averla fatta scappare dalla Croazia. Ma grazie al fatto che affronta il suo passato, Ana smette di comportarsi come una vittima.
Nel libro si parla anche molto di migrazione. Ana e Michael sono entrambi “immigrati” in Italia ma la loro esperienza è molto diversa. Come queste differenze mettono in luce il contrasto tra l’est Europa e l’occidente, e in che modo il romanzo critica le dinamiche occidentali rispetto alla migrazione?
In effetti la loro esperienza è molto diversa, perché chi viene dall’est è spesso trattato come un individuo di “seconda classe”. Ana ha più difficoltà ad adattarsi e ad organizzare la sua vita, Michael invece è un privilegiato. Uso la parola privilegio non a caso. Molti giovani che sono nati qui non apprezzano la loro liberà, non si accorgono che il loro è un vero privilegio. La storia di Ana e Michael vuole essere anche una riflessione in questo senso. L’esempio che c’è nel libro, in cui entrambi vanno in questura per delle pratiche relative al loro status di immigrati mostra quanto tutto sia più difficile per Ana, che per poter fare i documenti è costretta addirittura a nascondere il passaporto nella biancheria intima. Mentre Michael riceve tutt’altro trattamento.
Volevo mostrare i disagi di chi arriva da determinati paesi, e far conoscere la sensazione di umiliazione che a volte si prova. Quando arrivi in un paese da emigrato tu pensi che la tua vita diventi un miracolo e invece poi ti rendi conto che per te tutto diventa molto complicato: trovare una casa, un lavoro, studiare. Io ricordo, ad esempio, che qui negli anni ‘90 non volevano affittare le case ai serbi. Nel mondo di oggi spesso si dice che siamo tutti uguali ma non è vero, e questo passaggio del libro lo mostra. Però anche quando ti trovi davanti a questo tipo di difficoltà puoi scegliere. O incolpi tutti oppure accetti che queste cose siano successe, rendendoti più forte.
Il vento da est è un romanzo intenso, capace di offrire un’analisi che intreccia il piano personale con quello sociale. È un libro che esplora il rapporto con il proprio retroterra familiare e culturale, raccontando la diversità tra est e ovest e mettendone in luce sia i pregi che le contraddizioni. Con delicatezza ma senza timori, il libro critica le ipocrisie del mondo occidentale, dove i principi di uguaglianza spesso si scontrano con una realtà intrisa di ingiustizie e pregiudizi.
Il tema della memoria accompagna l’intero romanzo sottolineando l’importanza, sul piano personale, di “perdonare” e “perdonarsi”. Ma nel parlare di memoria, “Il vento da est” supera la dimensione del racconto individuale, creando un’eco verso la complessa realtà dell’ex-Jugoslavia. Un luogo che, diversamente da Ana, non ha ancora affrontato il proprio passato, rimanendo sospeso tra una globalizzazione che lo avvicina all’occidente e il peso di un conflitto vecchio di trent’anni, ma mai davvero concluso.
Djordjevic suggerisce che si può trovare pace solo affrontando la propria memoria, lasciandosi attraversare da quel “vento da est”. La Bora, di cui molto si parla nel libro, non è solo un fenomeno atmosferico che lega gli abitanti delle terre tra il Friuli e i Balcani, ma diventa una potente metafora di rinascita. Come ci ha confidato l’autrice: “la Bora può creare moltissimi danni, e quando è forte puoi solo chiuderti in casa, osservarla, e aspettare che passi. Però poi quando passa è una rinascita, si torna alla vita e si diventa più forti”.
Fonte: Copertina del libro “il vento da est”