Sono oltre quaranta le facoltà occupate da studenti e docenti in tutta la Serbia. Nonostante le violenze e le provocazioni degli scagnozzi del regime di Vučić, la protesta contro il governo si allarga, con il crescente sostegno dei cittadini.
Dalla tragedia di Novi Sad alla rivolta studentesca
Belgrado, Novi Sad, Niš, Kragujevac. Un’ondata di proteste ha invaso le facoltà universitarie in tutta la Serbia, alimentando un risentimento che dilaga nella coscienza collettiva dalla recente tragedia di Novi Sad, dove persero la vita quindici persone in seguito al crollo della tettoia esterna della stazione ferroviaria. Sulla scia della rabbia per questo episodio che insabbia tuttora le responsabilità politiche dei colpevoli, la rivolta nelle università sembra crescere giorno dopo giorno, interessando oltre quaranta università del paese. Fin dall’inizio della protesta, migliaia di cittadini rendono regolarmente omaggio alle vittime di Novi Sad, chiedendo che i responsabili vengano consegnati alla giustizia.
I corsi sono stati sospesi, gli atenei occupati, studenti e docenti sono barricati al loro interno per protestare contro il bavaglio che sta soffocando la Serbia del presidente Aleksandar Vučić, alle prese con la prima mobilitazione studentesca di massa dall’inizio del suo regime. È infatti dall’inverno del 1996-1997, ai tempi delle manifestazioni contro Slobodan Milošević, che non se ne vedeva una così imponente. Centinaia di persone guidate da studenti universitari hanno inoltre inscenato lo scorso venerdì una manifestazione davanti alla sede della televisione di Stato serba a Belgrado.
Non sono mancati scontri tra i manifestanti e alcuni facinorosi incappucciati che hanno saccheggiato edifici pubblici sotto gli occhi inermi della polizia. Se in molti sollevano l’ipotesi che questi agitatori incappucciati siano scagnozzi del potere, mandati lì appositamente per creare scompiglio, il fatto certo è che diversi manifestanti, tra cui studenti, sono stati arrestati. I primi a farne le spese sono stati gli studenti della facoltà di Arti drammatiche di Belgrado, aggrediti da un gruppo di persone il 22 novembre scorso di fronte alla polizia, rimasta impassibile. Sebbene alcuni aggressori siano stati identificati, compresi alcuni funzionari della città di Belgrado, la vicenda non ha avuto alcun seguito.
Facoltà chiuse, occhi aperti
Al grido di “Zastani, Srbijo!” (“Fermati, Serbia!”), le manifestazioni sono ormai diventate regolari. Ogni giorno alle 11,52, l’ora in cui è crollata la tettoia della stazione di Novi Sad, si osservano quindici minuti di silenzio e blocco del traffico, uno per ciascuna delle quindici vittime. Dopo il pestaggio del 22 novembre molti studenti sono diventati attivisti, sfidando i modi autoritari del regime del presidente Vučić. Sui cartelli esposti all’ingresso della facoltà di Filosofia di Belgrado compaiono degli slogan che sintetizzano al meglio il sentimento di buona parte della popolazione serba: “Non voglio più aver paura della vostra oscurità”, “La lotta è filosofia”, “Penso, quindi protesto”, “Facoltà chiuse, occhi aperti”, “Blocchiamo le lezioni per poterne tenere una per voi”, “Mamma, farò anche questo esame”. All’interno della facoltà occupata gli studenti si sono organizzati: davanti ad una delle aule sono raccolti cibo, coperte, prodotti per l’igiene e tutti gli altri beni donati dalle centinaia di cittadini che appoggiano la causa. La sera si tirano fuori i giochi da tavolo, le carte, si proiettano film e documentari.
“Mi vergogno di aver lasciato a questi giovani questa situazione di autocrazia e corruzione, portare loro un po’ di zuppa e osservare quindici minuti di silenzio accanto a loro è il minimo che possa fare”, spiega una signora mentre spinge il carrello della spesa destinato agli studenti. Sulle borse del supermercato si leggono altri slogan, come “Siate coraggiosi”, “Non siete soli”, “Continuate da dove abbiamo smesso noi”. Un passaggio di testimone tra generazioni diverse, con lo stesso obiettivo: una Serbia democratica.
Quasi 10.000 studenti sono attivamente impegnati. Il sostegno della popolazione rinfranca il loro animo, anche grazie all’appoggio che arriva dai colleghi della regione, di Zagabria, Sarajevo e Banja Luka. Questa volta, dicono fiduciosamente gli studenti, “sarà tutto diverso”.
Il bisogno di verità e lo spettro della repressione
Da oltre un mese i cittadini serbi e tutti i manifestanti chiedono che sia resa pubblica tutta la documentazione relativa ai lavori di ricostruzione della stazione ferroviaria di Novi Sad, identificando al contempo i responsabili della tragedia e i gruppi organizzati che hanno aggredito gli studenti. Un malessere che si lega a quello sollevatosi dopo i tremendi omicidi di massa del maggio 2023, quando altre proteste, poi dissolte, sembravano sul punto di scardinare la classe dirigente al comando. Lo scorso 12 dicembre il presidente Vučić ha quindi tenuto una conferenza stampa – con le urla della folla di studenti fuori dall’edificio a fare da sottofondo – presentando la documentazione relativa alla tragedia, ovvero ai lavori che avevano interessato la stazione di Novi Sad. Vučić ha anche promesso di aumentare i budget delle facoltà, ma ciò non sembra aver soddisfatto studenti e manifestanti, che sono ostinati a continuare a protestare.
Questo bisogno di verità che infiamma la coscienza dei cittadini serbi si scontra inesorabilmente con una violenza da parte delle istituzioni che è diventata prassi consolidata, tratto distintivo del regime di Vučić e dei suoi seguaci. Le impronte di mani insanguinate, già lasciate sugli edifici governativi durante le proteste di novembre a Novi Sad, sono diventate il simbolo potentissimo di questa ricerca della verità, una ricerca che ha sempre più le sembianze di una catarsi. Se ai tempi della piattaforma politica “Otpor” e della lotta al regime di Milošević il simbolo ricorrente era il pugno chiuso, oggi è questa mano rossa e insanguinata a riempire lo spazio pubblico: i muri, le facciate dei centri commerciali, il Parlamento, l’Arena di Belgrado. Le mani insanguinate sono ovunque.
Il Partito progressista serbo (SNS) del presidente risponde che i manifestanti sarebbero appoggiati da finanziamenti stranieri per impadronirsi del potere con la forza, approfittandosi dei morti come “sciacalli”. Secondo il presidente, che non ha ancora trovato opportuno recarsi sul luogo della tragedia di Novi Sad, il fatto di bloccare il traffico ogni giorno per quindici minuti renderebbe impossibile la vita dei cittadini serbi. È curioso che per il presidente sia il traffico a disturbare la vita delle persone, e non la manipolazione dei mass media, l’uso incontrastato della violenza contro gli oppositori, la diffusione della paura che il governo sta attuando da anni. Seguendo un fil rouge autocratico, Vučić sembra dunque comportarsi come Milošević: in modo irresponsabile, arbitrario, senza alcun desiderio di ascoltare i propri cittadini, senza comprendere la necessità di un pluralismo di opinioni, convinto di poter reprimere con la forza la libertà di pensiero e di espressione.
Resta ora un grande interrogativo: qual sarà il destino di questa manifestazione così imponente che incarna l’esasperazione di buona parte della Serbia? Se dovesse riuscire a sopravvivere alla repressione che sembra incombere sempre più inesorabile, allora gli studenti potranno davvero dire che sì, questa volta è tutto diverso.
Foto: autonomija.info