Ieri, domenica 1 dicembre, si è votato in Romania per le elezioni parlamentari. Il secondo appuntamento elettorale era atteso e temuto alla luce dell’ascesa inaspettata, la settimana scorsa, di Călin Georgescu, candidato indipendente di estrema destra, che si è imposto come primo candidato e sfiderà al secondo turno presidenziale Elena Lasconi di Unione Salvate la Romania, moderata liberale. Già questo risultato era stato stravolgente; poi, nel corso della scorsa settimana, diversi avvenimenti avevano provocato sempre più irrequietezza e incertezza, come la controversa decisione della Corte costituzionale rumena di ordinare, venerdì, il riconteggio dei 9,4 milioni di voti espressi per il primo turno delle presidenziali.
Quindi, mentre la Romania festeggiava ieri la propria festa nazionale e i 106 anni della Grande Unione, 31 partiti e 19 organizzazioni delle minoranze nazionali correvano per superare la soglia del 5 percento e poter entrare in Parlamento. Vengono eletti 134 senatori e 331 deputati, compresi 2 senatori e 4 deputati dalla diaspora, per un totale di 465 membri.
East Journal ha seguito in diretta lo spoglio dei voti. Piccola nota: per comodità di chi scrive, tutte le percentuali sono una media fra la percentuale ottenuta in Senato e quella alla Camera dei deputati, qui le percentuali precise.
Il voto
Già i primissimi exit poll, usciti immediatamente dopo la chiusura delle urne, davano il Partito Social Democratico come primo partito. Il dato iniziale del 26% si è poi assestato su un 22% circa. Dunque la rete territoriale del partito si riconferma in salute e forte abbastanza da piazzare il partito saldamente al primo posto, pur mostrando segni di affaticamento. Per fare un paragone, alle parlamentari di quattro anni fa, il partito si era piazzato in testa con il 29% dei voti.
Al secondo posto c’è il partito di estrema destra Alleanza per l’Unione dei Romeni, che ottiene un buon risultato, migliore sia delle europee, in cui aveva ottenuto poco meno del 15%, sia di quello che ha preso il leader George Simion alle presidenziali di domenica scorsa (poco meno del 14%). AUR conferma, quindi, il proprio trend in crescita, ma non sfonda la soglia psicologica del 20% e rimane al 18% circa.
Terzo, abbastanza a sorpresa, il “redivivo” Partito Nazionale Liberale, con circa il 14%. Dato per finito, “polverizzato” dopo il disastroso primo turno delle presidenziali, in cui il leader di partito, Nicolae Ciucă, aveva preso poco meno del 9%, ha mostrato ieri, alle parlamentari, di possedere ancora un po’ di forza per giocare un suo ruolo nella politica nazionale rumena. Per quanto l’emorragia di consensi ci sia inequivocabilmente stata – il partito più di dieci punti percentuali rispetto alle scorse elezioni parlamentari del 2020 – il partito si salva, anche se con parecchi graffi. Allo stesso tempo, e alla stessa luce di questo voto, si può confermare il voto scarso per Ciucă alle presidenziali come un chiaro voto contro il leader stesso del PNL.
Appena sotto, si piazza come quarto partito l’Unione Salvate la Romania, con poco più del 12%. USR gode, quindi, di un leggero effetto trainante legato a Lasconi, ma non tanto quanto ci si sarebbe aspettato. Questo conferma che il voto per la candidata al primo turno delle presidenziali era stato in parte un voto personale, legato a Lasconi stessa. Tuttavia, mostra anche che il travaso dal PNL a USR, con il conseguente tracollo del primo, non è avvenuto.
Amaro, ma purtroppo atteso, il buon risultato dei due partiti minori di estrema destra, il già noto S.O.S. Romania di Diana Sosoaca, che era stata la vera novità delle elezioni per il Parlamento europeo in giugno, e il Partito delle Persone Giovani (POT), fondato nel 2023 da Anamaria Gavrilă, fuoriuscita da AUR. Entrambi “costole” di AUR, entrambi sovranisti, nazionalisti, conservatori, di estrema destra, si piazzano al quinto e sesto posto con circa il 7,5% e il 6,5% rispettivamente. Alle scorse elezioni europee, nel voto interno, S.O.S. non aveva neanche superato la soglia di sbarramento, fermandosi al 3% (potendo, tuttavia, arrivare a Bruxelles, largamente supportata dai voti della diaspora). Ha quindi avuto una crescita fortissima interna nel giro di poco più di cinque mesi. POT, invece, è alla sua prima apparizione a livello nazionale.
I tre partiti riescono così a creare un polo di estrema destra dentro alle Camere. Come da aspettative, un terzo del Parlamento sarà, quindi, sovranista: insieme AUR, SOS e POT fanno circa il 32%. Così facendo, la Romania si situa nella tendenza già presente in Europa e nel mondo occidentale. Non c’è più solo AUR, come partito “baubau”, come si dice in rumeno, quello che fa paura ed è un po’ paria, ma si è ormai consolidato anche in Romania un terzo gruppo parlamentare di estrema destra di cui bisognerà giocoforza tenere conto.
Come abbiamo detto, sia per il PSD, ma anche per il PNL, i relativamente buoni risultati sono da imputare, come sappiamo, alla loro lunga storia e tradizione politica, che li rende partiti ben radicati nella scena politica rumena. Ciononostante, il calo di consensi per entrambi i partiti “tradizionali” è evidente, con una percentuale aggregata di 17 punti che sono confluiti dentro ai partiti di estrema destra: incrociando i dati, infatti, AUR nel 2020 aveva preso circa il 9%, mentre ieri è arrivato al 18%; invece, SOS e POT ne hanno raccolti insieme circa il 14%.
L’affluenza è stata del 52,5%, un dato che all’apparenza non salta all’occhio ed è pari a quella delle presidenziali del weekend scorso. Si potrebbe, quindi, superficialmente dire che non c’è stata la mobilitazione vaticinata, legata alla reazione contro l’ascesa di Georgescu e in protesta contro la controversa decisione della Corte costituzionale di ricontare i voti. In realtá è avvenuta: da una parte, infatti, la presenza a questa elezione parlamentare è stata di gran lunga maggiore rispetto alle scorse: nel 2020 era stata del 32% scarso, per esempio, ed è in generale è la più alta affluenza alle parlamentari dal 2004, quando andò a votare il 58,50% circa degli aventi diritto. Inoltre, se si guarda a come vanno solitamente le presidenziali rispetto alle parlamentari, il trend mostra che le presidenziali sono sempre più votate rispetto alle parlamentari. Per dare alcuni numeri: nel 2019 aveva votato circa il 51,20%, in quelle del 2014 intorno al 53,20%. Questo è legato, evidentemente, al maggiore grado di personalizzazione di questo tipo di elezioni. Il fatto, quindi, che a queste parlamentari la percentuale di votanti sia rimasta pari a quella delle presidenziali è già significativo e già suggerisce un’avvenuta mobilitazione, seppur non di proporzioni oceaniche. Non è però tutto rose e fiori: il dato significa comunque che il 47,5% dei votanti ancora non ritiene necessario o importante andare a votare.
Si perde il sorriso anche guardando ai dati di chi ha votato. Bassissimo il voto da parte dei giovani nella fascia 18-24 anni. Un dato profondamente preoccupante, che andrà maggiormente indagato, anche se le cause di base sono già ben note; ma soprattutto a cui la politica dovrà per forza dare una risposta. Come leggere questo dato? Male anche la fascia 25-34 anni. Insomma, fra i giovani e giovanissimi è strage, con circa nove giovani sotto i 34 anni su dieci che non si sono recati alle urne.
La “solita” diaspora
La diaspora ha più che triplicato il numero di chi è andato a votare. Mentre nel 2020 erano stati poco più di 260mila, ieri sono andate alle urne quasi 750mila persone. Tuttavia, alle parlamentari, come alle europee, il voto dall’estero viene conteggiato diversamente e la diaspora elegge complessivamente 4 deputati e 2 senatori. Proprio perché il meccanismo di ripartizione dei voti è diverso, questa volta non c’è stato il “miracolo” (o l’incubo, dipende dai punti di vista) della diaspora, come per le presidenziali.
Ciononostante i numeri e le percentuali sono comunque importanti. Per esempio, se la diaspora dall’Europa occidentale riconferma una fortissima affezione per l’estrema destra, è la prima volta che vediamo piazzarsi come primi tre partiti tre partiti di estrema destra. È successo in Spagna, Germania e Italia. In altri paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, USR si piazza al secondo posto, comunque distaccata di dieci punti percentuali e senza riuscire, quindi, a sfondare il blocco sovranista. In generale, ovunque POT prende molto più del 10%: in Italia è al 16%, in Francia quasi al 13%, in Spagna quasi al 19%.
Entrambi il PSD e il PNL sono andati molto male e in nessun paese dell’Europa occidentale hanno preso più del 10% – nella maggioranza dei casi, neanche sommandoli insieme.
Che parlamento e che governo sarà?
Come prima cosa, bisognerà vedere chi sarà eletto presidente. Ammesso e non concesso che non cambi l’ordine dei candidati, dopo il riconteggio dei voti voluto dalla Corte costituzionale, quindi ammettendo che rimanga la sfida per il secondo turno delle presidenziali Georgescu-Lasconi, come da voto espresso lo scorso weekend, il primo e “più rassicurante” scenario vedrebbe Lasconi vincere le presidenziali. In questo caso, si può prevedere un governo in cui PSD e PNL sarebbero probabilmente nuovamente “costretti” a trovare una quadra di governo, come maggiori partiti “tradizionali”, e con l’intenzione di volere escludere AUR dal governo. Si dovrebbe, qundi, ricreare la stessa coalizione che ha provocato tanta insoddisfazione in questi ultimi anni e che ha portato su le estreme destre.
USR dovrebbe entrare, anche in quanto partito della presidente. In questo caso la retorica per giustificarsi all’elettorato verterebbe sulla necessità di fare muro di contenimento contro l’estrema destra, mantenendo quindi lo stesso argomento utilizzato in campagna elettorale. Altrimenti potrebbe restare fuori, appoggiando il governo PSD-PNL dall’esterno, eventualmente aggiungendo gli ungheresi, che hanno raccolto circa il 6,5% dei voti. Si tratterebbe però di un governo di minoranza e quindi molto instabile.
Il secondo scenario è più sconvolgente: Georgescu diventa presidente, e qui le carte si sparigliano. AUR come secondo partito potrebbe, per forza di gioco, avere un ruolo dentro al governo. Ma con chi? Il PSD ha dichiarato, come abbiamo visto, di non volersi alleare con le destre estreme, ma potrebbe dovere (o volere) tornare sui suoi passi dopo le dimissioni del suo leader Marcel Ciolacu e se la nuova guida del partito volesse assumere posizioni più conservatrici. Questo creerebbe, comunque, un certo terremoto politico dentro la politica rumena, perché di fatto vorrebbe dire far cadere il “cordone sanitario” e aprire le porte all’estrema destra, che verrebbe così “legittimata”. Questa eventualitá avrebbe ricadute anche a livello europeo e comporterebbe probabilmente la sospensione del PSD dalla famiglia dei Socialdemocratici.
Il punto è che i numeri non sono sufficienti per permettere ad AUR, SOS e POT di governare da soli, quindi ci sarebbe bisogno di trovare soluzioni alternative. Si vocifera, per esempio, che si potrebbe formare un governo con solo il PSD e AUR, che arriverebbe così al 40%, lasciando fuori ufficialmente i due partiti minori e più estremisti, che potrebbero appoggiare il governo dall’esterno. Una scena già vista nel lontano 1994 con il governo del pesedista Nicolae Văcăroiu.
Se anche Georgescu dovesse diventare presidente, direi si possa escludere di vedere George Simion come primo ministro, per scegliere qualcuno del PSD e dare così una faccia più “rassicurante” al governo. In questo caso, AUR dovrebbe accettare di moderare la proprio retorica, seguendo un’evoluzione come quella di Fratelli d’Italia, conservatrice ma che mantiene il posizionamento internazionale usuale del paese.
In un modo o nell’altro, il PSD sarebbe il vero “broker” politico, in quanto nessuna alleanza è possibile senza di lui nell’attuale aritmetica parlamentare. Inoltre, è il partito più “versatile” ideologicamente, quello con il margine più ampio e variegato di associazione con gli altri.
Quindi?
Se il voto di protesta durante il primo round delle presidenziali è stato molto connotato contro il PSD e il PNL, in questo caso è stato un voto più “sfumato”, basato su un messaggio da parte degli elettori che è sembrato dire “Vi diamo un briciolo di fiducia, solo perché abbiamo paura degli altri. Ma cambiate, portate altre persone”. Un messaggio che pare essere stato raccolto per ora dal PNL, con la nuova leadership di Ilie Bolojan. Per il PSD le cose sono un po’ più complicate: dopo le dimissioni di Ciolacu, è comunque rimasto leader ad interim e probabilmente rimarrà “alla testa del partito“, “nel contesto in cui c’è bisogno di persone con esperienza”, come ha detto Victor Negrescu, membro di spicco del partito, in un’intervista di questi giorni.
Le parlamentari hanno portato ad un panorama politico molto più frammentato, con molti più poli. Uno scenario Bulgaria, cioè di un parlamento talmente frammentato in cui diventa difficile, se non impossibile, trovare una formula per governare, non sembra per il momento il caso della Romania, ma c’è bisogno di negoziati fra partiti e di compromessi, anche importanti.
Rimane, quindi, una situazione molto fluida. Di fatto, queste elezioni non sono state un terremoto come la settimana scorsa, ma lasciano comunque un grosso punto interrogativo su cosa potrebbe essere. Soprattutto, confermano che l’estrema destra è ora saldamente entrata dentro la vita politica rumena.
Aggiornamento dell’ultima ora: La Corte costituzionale ha appena annunciato i risultati parziali del riconteggio dei voti per il primo turno delle presidenziali. Con più di 640mila ancora da riconteggiare, ha comunque rilasciato un comunicato in cui Marcel Ciolacu del PSD sarebbe avanti di 127mila voti, piazzandosi al secondo posto e superando Lasconi. È ovviamente una situazione estremamente incerta. Subito dopo, infatti, la Corte ha annunciato che – con un voto all’unanimità – il risultato del primo turno è stato validato.
Foto: Euronews Italia