STORIA. L’Europa, i Balcani e i confini orientali

Realizzando il sogno dell’irredentismo jugoslavo, il 1° dicembre 1918 prese vita il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, una nuova entità che rese evidenti le difficoltà di pensare ai confini dell’Europa dopo la Grande guerra. A distanza di poco più di un secolo, l’ipotesi di “allargamento” ad Est dell’UE si scontra con oggettive e complesse questioni geopolitiche e deve fare i conti con problemi endemici ed irrisolti delle comunità balcaniche.

La necessità di ridisegnare l’Europa dopo la Grande guerra

Dallo smantellamento dell’Impero austro-ungarico il 1° dicembre 1918 prese vita il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, una nuova entità autonoma posta sotto la dinastia dei Karađorđević e del suo monarca più convinto in tal senso, re Aleksandar, ribattezzato l’unificatore proprio per questo motivo.

Falciando i quattro grandi imperi allora presenti, la Grande guerra e i trattati di pace che ne seguirono fecero la fortuna dei cartografi del tempo, palesando la necessità di ridisegnare il Vecchio continente e, al contempo, rendendo evidente la complessità di un’operazione così imponente. I nuovi confini furono stabiliti e tracciati a tavolino dai vincitori della Grande guerra, i quali spesso non furono in grado di prevedere le ripercussioni di una riga tracciata su una cartina geografica, specialmente laddove – i Balcani occidentali – queste linee erano sorgente di conflitti e rivalità nazionali.

Tanto più sulla scia di quello jugoslavismo che, per dirla con Egidio Ivetic, ha percorso con forme diversissime ed esiti altrettanto variegati la storia dei popoli slavi dagli anni Trenta dell’Ottocento (in corrispondenza della nascita del movimento illirico) fino alla fine del Novecento. Il problema dei confini europei fu consustanziale alla sfuggente definizione di Balcani, crocevia di più mondi al limitare fra Nord e Sud, Est e Ovest, terra di passaggio e di molteplici diversità. 

Tracciare nuove linee sulla cartina geografica: un’operazione complessa

Stabilire le nuove frontiere dell’Europa postbellica cercando di non scontentare nessuno fu un’impresa ardua, forse fuori dalla portata dell’ingegno dei suoi artefici: quattro anni di conflitto avevano generato aspettative difficili da soddisfare e i princìpi chiamati in causa per ridisegnare l’Europa spesso stridevano con altri princìpi altrettanto validi, seppur miranti a obiettivi diversi.

Fu inevitabile soddisfare richieste e al contempo declinare contro-richieste tra stati limitrofi, specialmente considerando il peso mastodontico che l’eredità del XIX secolo proiettava sulla visione (e sulle risoluzioni) del XX; in altre parole, era davvero difficile conciliare il modernissimo principio di autodeterminazione dei popoli del presidente americano Wilson con la necessità di stabilire confini territoriali che garantissero ai vari stati una sicurezza duratura e solida, dal momento che le questioni geografiche e strategiche in tavola mettevano radici nei decenni e secoli precedenti, con rotte e relazioni commerciali consolidate da non danneggiare, e mercati internazionali e interdipendenti da salvaguardare.

Viceversa, garantire il quadro economico tracciando un confine statale sulla base degli scambi strategico-commerciali avrebbe potuto significare pugnalare l’aspetto nazionale, includendo cioè determinate minoranze in uno stato estraneo; o ancora, garantendo il principio nazionale si poteva correre il rischio di tracciare una frontiera su una rotta commerciale, spezzandola. Le difficoltà non finivano qui: migrazioni e colonizzazioni avevano contribuito a complicare il quadro, creando isole etniche in cui una determinata comunità si trovava all’interno di uno stato sostanzialmente estraneo; questo fu, forse, il problema più spinoso.

Il principio nazionale come principio guida

L’unica soluzione pareva essere l’espulsione o il ricollocamento forzato, ma tali manovre erano impensabili in sede di trattati di pace. Alla luce di tutto ciò, il principio nazionale fu considerato quello più attuabile, o meglio, meno impattante, nonostante fosse oltremodo arduo garantire imparzialità nell’assegnare determinati gruppi nazionali a determinati stati.

Dunque: potevano (o dovevano) lingua e appartenenza etnica essere i fattori chiave attraverso cui determinare la nazionalità? Tutto ciò era realizzabile nell’ingarbugliato panorama balcanico? In sede di discussioni fu anche avanzata la proposta di regolare le questioni territoriali attraverso plebisciti o votazioni popolari, come accadde nel 1920 nel bacino di Klagenfurt, dove agli abitanti fu concesso il diritto di determinare la propria appartenenza scegliendo tra Austria e Jugoslavia. Tuttavia, nella confusione generalizzata e nell’urgenza di chiudere la questione che caratterizzarono il primo dopoguerra, una simile procedura era irrealizzabile praticamente ovunque, e qualora non lo fosse stata, avrebbe quasi sicuramente suscitato negli abitanti più malcontento che soddisfazione; era infatti impossibile stabilire fino a che punto le votazioni o i plebisciti rappresentassero la volontà popolare, specialmente considerando le pressioni esercitate dalle autorità locali nei vari distretti attraverso il terrore e la minaccia di rappresaglie.

Malgrado le numerose rivendicazioni e contro-rivendicazioni che giungevano da ogni parte, i confini dell’Europa e dell’area balcanica andavano ridisegnati al più presto, e così fu fatto. Per quanto riguarda la Jugoslavia, se i suoi confini esterni furono di fatto “artificiali“, quelli interni – come quelli bosniaci –  erano in realtà un lascito storico semi-millenario delle frontiere imperiali, mentre altri – ad esempio quello tra Vojvodina asburgica e Serbia ottomana, che passava per Zemun – vennero completamente cancellati dal tempo. Data la complessità dell’argomento, il discorso del confine orientale italiano e del fascismo di frontiera merita invece un articolo a parte: dalla questione adriatica allo Stato indipendente di Croazia, dalla fascistizzazione della Slovenia alle foibe.

I Balcani occidentali oggi

Sono passati quasi cent’anni dall’esperimento di unione tra serbi, croati e sloveni sotto un’unica bandiera: dapprima in uno stato diventato regno nel 1929, e poi Jugoslavia durante il socialismo e fino alla morte di Tito, con il successivo disastro della guerra degli anni Novanta. Dalle macerie materiali (e morali) del suicidio jugoslavo e dal difficile periodo di assestamento tuttora in corso sono emersi sette paesi post-jugoslavi – ai quali per completare il quadro va aggiunta l’Albania della transizione post-comunista.

Trent’anni sono invece trascorsi dagli accordi di Dayton che ponevano fine alle guerre jugoslave (anche se a breve sarebbe scoppiato il conflitto in Kosovo). Una conclusione stabilita a tavolino che sanciva la deposizione delle armi, ma che istituzionalizzava le divisioni e i nazionalismi in una cornice statale tutt’altro che unitaria, ma anzi paralizzata da corrosivi gangli burocratici.

Costretti in questa incerta posizione centrale, crocevia dei punti cardinali e al tempo stesso della loro dissoluzione, i Balcani cercano da sempre quell’identità che li possa riassumere e, soprattutto, comprendere. Qui si sono aggrovigliati i nodi di alcuni fil rouge che hanno attraversato la storia contemporanea: dalla complessa (e spesso violenta) dialettica dello Stato-nazione con il principio sovranazionale e i processi di governance globale e regionale, alla questione dell’adesione dei Balcani occidentali all’Unione Europea, passando per la definizione stessa di Europa, tanto sul piano storico quanto su quello geografico.

Una definizione di Europa

Sul piano storico la letteratura che tenta di dare una definizione di Europa è assai nutrita. Secondo Marcello Verga l’idea di Europa si è caricata (e si carica ancora oggi) di valori e significati diversi, spesso contraddittori, sempre, comunque “felicemente imprecisi e ambigui”. Per Federico Chabod il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c’è qualcosa che non è Europa, ed acquista le sue caratteristiche e si precisa nei suoi elementi proprio attraverso un confronto con questa non-Europa.

Ancora una volta, dunque, le comunità balcaniche vedono il loro destino strettamente connesso alle sorti dell’Europa di cui incarnano rilevanti tratti costitutivi. Da cerniera di importanti imperi centrali a terra di frontiera, i Balcani interpellano l’Europa per definire insieme una nuova identità tutta da consolidare. Potrà la progressiva definizione dei confini di alcuni stati della penisola costituire la spina dorsale di una nuova Europa così volta, nel nostro tempo, al consolidamento su scenari orientali?

Una tale prospettiva oggi potrebbe addirittura assumere connotati chimerici, davvero irreali e velleitari (dalla guerra Russo-Ucraina, all’incognita Transnistria, dalle turbolenze in Moldavia all’incertezza elettorale in Romania, passando per il desiderio europeista della Georgia). Ma la soluzione delle difficoltà dei paesi balcanici potrebbe andare di pari passo con la formazione di una entità europea che nella propria coesione interna e con prospettive di pace potrebbe uscire dall’impasse in cui è purtroppo impantanata.

Foto: Čuvajte Jugoslaviju, Izdaje Jugoslavenski Ženski Savez sekcija za Savsku banovinu u korist fonda za podizanje spomenika Viteškog Kralja Aleksandra Ujedinitelja Izradila Duna Peyer Tisak Z. t. Nar. Nov. 1934. id: 0567 R.

Chi è Paolo Garatti

Storico e filologo, classe 1983, vive in provincia di Brescia. Grande appassionato di Storia balcanica contemporanea, ha vissuto per qualche periodo tra Sarajevo e Belgrado dove ha scritto le sue tesi di laurea. Viaggiatore solitario e amante dei treni, esplora l'Est principalmente su rotaia

Leggi anche

balcani leva militare

BALCANI: I paesi della regione pensano alla leva militare

Nei paesi dell'ex Jugoslavia si infiamma il dibattito pubblico sulla possibile reintroduzione del servizio militare obbligatorio. I nuovi conflitti globali alimentano riflessioni anche nei Balcani.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com