Le elezioni americane del 6 novembre ci (ri)consegnano il 47° presidente degli Stati Uniti d’America: Donald Trump. Le scelte che il tycoon prenderà in nome della prima potenza mondiale sono destinate a cambiare il corso degli eventi che definiscono la nostra contemporaneità. Il campo “pro-pace” si allarga e l’Occidente è chiamato a una scelta.
La vittoria di Trump arriva quasi inevitabile, considerando tutta una serie di ragioni di cui avevamo già avuto modo di parlare (qui). Tra queste, la quantità di finanziamenti, e il tipo di finanziatori, che ne hanno sostenuto la campagna; ma anche gli ostacoli, quasi impossibili da superare, per la Harris, entrata in scena troppo tardi, anche a causa delle reticenze di Biden nel ritirarsi.
In ogni caso, se già da un anno a questa parte diverse istituzioni si sono affrettate a promuovere azioni ‘a prova di Trump’, oggi questa possibilità si è fatta realtà. Il primo tassello di domino è caduto, innescando una serie di conseguenze che si prevede rapidissima. Il disimpegno (e il disinteresse) dichiarato da Trump nei confronti degli scenari internazionali, ha fatto sì che in diversi si sentissero legittimati a procedere a briglie sciolte: Israele annuncia di voler espandere il conflitto nel Libano Meridionale, l’Ucraina penetra nel territorio russo fino al Dagestan con un attacco di droni, e Putin apre al dialogo, ma contemporaneamente continua a bombardare Kyiv e le condizioni per la fine del conflitto rimangono le stesse.
Il piano di pace di Trump è destinato a fallire?
Quasi insieme alla pubblicazione del risultato elettorale statunitense, arrivano le congratulazione da parte di Zelenskij al neo-eletto presidente, che con l’occasione si augura il continuamento delle relazioni bilaterali fra i due stati, e fa appello alle istanze neo-realiste espresse da Trump, parlando della necessità di continuare a muoversi in direzione di una pace ‘attraverso la forza‘; ignorando, invece, quelle più isolazioniste e di disimpegno.
Intanto, il Wall Street Journal pubblica la versione più completa del possibile piano di pace che il tycoon potrebbe proporre per risolvere la crisi ucraina. Un piano che prevederebbe una zona demilitarizzata ai due lati del fronte, la garanzia di non adesione alla NATO dell’Ucraina per almeno i prossimi 20 anni e una presenza di peace keeping tutta europea in suolo ucraino, con il minor coinvolgimento statunitense possibile. Un piano che, però, Trump non conferma o smentisce, considerando come la sua condivisione ne minerebbe l’efficacia in sede negoziale.
Eppure, anche solo in termini potenziali, queste possibilità accendono gli animi. In risposta a questa pubblicazione, infatti, sul Kyiv post appare un articolo dal titolo “perché il piano di pace di Trump è destinato a fallire’. Fra le ragioni ivi riportate, il fatto che un piano simile ignorerebbe le ‘voci ucraine’; non porterebbe a una vera pace sul territorio ucraino (soprattutto nell’eventualità in cui i territori attualmente occupati rimangano tali,) e infine, il fatto che una pace a tutti i costi, forzerebbe al tavolo negoziale un’Ucraina in condizioni di evidente svantaggio.
Allo stesso tempo, Putin, che già durante il vertice BRICS tenutosi a Kazan fra il 22 e il 24 ottobre aveva giudicato ‘sinceri’ i commenti dell’allora candidato, rinnova, all’indomani della vittoria, il suo ‘interesse’ nei confronti di eventuali proposte della nuova leadership USA, stavolta dal palco del club Valdai. In questa occasione, Putin ricorda anche come ogni pressione nei suoi confronti rimanga ‘inutile‘, avendo reso chiaro sin da subito le sue condizioni, che rimangono invariate.
Puntualmente, le pressioni arrivano su Zelenskij, individuato ormai come il soggetto da dover convincere ad accettare la ‘pace’ di cui Trump sarebbe promotore. Una pace neo-imperialista e ingiusta, su cui si basa il concetto di ‘campo pro-pace‘ sostenuto anche da Orban, il quale durante il summit europeo tenutosi a Budapest fra il 7 e l’8 Novembre, sosterrebbe come “le elezioni americane chiudono un capitolo e ne aprono uno nuovo. […] Il popolo europeo è sempre meno pronto a finanziare una guerra di cui non comprende lo scopo. [..] Il campo pro-pace è cresciuto enormemente. Con le elezioni americane, sono molte più le persone in Occidente a pensarla così”, continua il Presidente ungherese che punta allo stop di invio di armi e a negoziati rapidi.
Ma Zelenskij non ci sta, e rispedisce le pressioni al mittente: “Alcuni dei presenti sostengono che l’Ucraina dovrebbe fare delle concessioni. E’ inaccettabile” e significherebbe “il suicidio dell’Europa“. “Abbracciare Putin non ha fatto altre che peggiorare le cose negli ultimi 20 anni, farlo di nuovo non aiuterà”, conclude il Presidente.
Al di là del successo e del fallimento
La questione centrale risiede nella stessa definizione di successo. Per Zelenskij sarebbe un coinvolgimento il più ampio possibile delle potenze occidentali per riportare sotto il suo controllo l’intero territorio nazionale con la forza, per poi far accedere l’Ucraina nella NATO a scongiurare future aggressioni, uscendo dal conflitto rafforzata militarmente e politicamente. Dall’altra parte, una simile speranza rimane incerta, costosa e indefinita nel tempo, per coloro che dovrebbero sostenerla e finanziarla. Riserve politiche ed economiche che portano un bacino sempre più ampio di potenze occidentali, a preferire la definizione di ‘pace’ alla Orban, come confermato dallo sbilanciamento a destra del Parlamento europeo durante le elezioni di quest’anno; e ancor di più con i risultati delle elezioni USA. Ma che, probabilmente, condannerebbero l’Ucraina a un’esistenza mutilata e indebolita.
C’è un fondo di verità in quanto detto recentemente da Shoigu, “l’Occidente è ora chiamato a una scelta. Se continuare a finanziare l’Ucraina e distruggere la popolazione ucraina o rendersi conto della realtà sul campo e iniziare a negoziare” . La Russia lo sa, e si fa vedere aperta a negoziazioni da cui ha solo da guadagnare. Gli USA sembrano aver deciso, mentre l’Europa è al bivio e le sue prossime mosse determineranno la sua rilevanza geo-politica futura, vero centro di discussione del summit di Budapest, oltre che la sopravvivenza stessa dell’Ucraina.