La Serbia di Vucic è un paese che cade a pezzi

Venerdì 1 novembre, a Novi Sad, seconda città della Serbia, 14 persone sono state uccise dal crollo della tettoia all’ingresso della stazione dei treni. Non è ancora chiaro cosa abbia provocato il cedimento strutturale, mentre è certo che le autorità di governo non si sono prese alcuna responsabilità per l’accaduto. A distanza di cinque giorni, l’unica conseguenza sono state le dimissioni del ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Goran Vesic.

Nel frattempo, monta la rabbia tra i cittadini, che martedì 5 novembre sono scesi in massa per le strade della capitale della Vojvodina per accusare il governo. Sono state proteste molto partecipate, tra le più grandi della storia recente di Novi Sad, dove ci sono stati alcuni episodi di violenza contro il municipio, colpito da vernice rossa e lancio di oggetti. Secondo diverse testimonianze, i violenti sarebbero però infiltrati vicini al regime che creano caos per delegittimare le proteste. Non sarebbe la prima volta. E infatti il presidente serbo Aleksandar Vucic ha condannato le violenze, senza invece ascoltare le richieste della piazza, che invita il potere alle dimissioni e a rispondere legalmente della tragedia.

“Sotto quella tettoia potevano esserci i miei figli”, si sente dire da molte persone, che rifiutano di chiamare l’episodio “incidente”: ci sono delle responsabilità collettive e l’impressione è che quella pensilina sia un po’ la metafora della Serbia di Vucic: senza punti saldi, tenuta su alla bell’e meglio, apparentemente stabile ma prossima alla strage.
La procura ha aperto un’indagine ma si teme che possa essere trovato un facile capro espiatorio, invece che stabilire la piramide di colpe.

Fa poi riflettere il fatto che l’ente pubblico “Infrastruttura ferroviaria serba”, ovvero il gestore delle ferrovie, appena due ore dopo la tragedia, mentre i soccorritori ancora cercavano di estrarre le persone dalle macerie, abbia pubblicato sul proprio profilo Instagram un comunicato in cui sostiene che la tettoia caduta non fosse stata interessata dai lavori di ricostruzione che avevano recentemente riguardato la stazione dei treni (che si innesta sull’alta velocità Belgrado-Budapest made in China). Stessa tesi sostenuta sia dal ministro Vesic, sia dal contraente generale, il consorzio cinese formato dalla China Railway International Company Ltd e la China Communications Construction Company Ltd. Una coda di paglia che però è bruciata presto con le smentite dell’ingegnere Zoran Djajic, che fino a marzo 2023 aveva lavorato come consulente al cantiere e afferma che anche la tettoia avesse subito dei lavori su cui lui stesso aveva consigliato di intervenire diversamente. E ciò non toglie che anche la mancata ristrutturazione della tettoia comporterebbe la responsabilità delle autorità competenti.

Ad ogni modo, la smentita riconferma il decennale modus operandi del governo serbo da quando il Partito progressista serbo di Vucic ha preso il potere: bell’apparenza, poca sostanza. La Serbia di Vucic è di fatto un enorme villaggio Potemkin: progressista di nome, ma guidata dai vecchi radicali nazionalisti; indirizzata all’Europa, ma che amoreggia con Putin; dice di garantire pace e stabilità regionale, ma accende tutte le possibili micce in Kosovo, Montenegro e Bosnia. E lo stesso accade coi lavori pubblici. Grandi e pomposi, ma kitsch e realizzati con materiali scadenti. Come per il rifacimento di Trg republike, la piazza centrale di Belgrado: un progetto fortemente voluto dall’allora vicesindaco – guarda caso, sempre Goran Vesic – e i cui sanpietrini vennero posti, divelti e ricollocati diverse volte, prima di dare il finale aspetto spettrale alla piazza. E ancora l’imponente statua di Stefano Nemanja, il cui costo finale è tuttora segreto e che sorge sul vecchio piazzale della stazione, già pieno di voragini.

La denuncia della piazza di oggi è quella di una prassi consolidata del governo progressista: appalti poco trasparenti, progetti assegnati agli amici degli amici, lavori realizzati male, prezzi finali gonfiati. Una catena in cui ci guadagnano tutti, tranne i cittadini. Oltre alle enormi spese pubbliche, le conseguenze di un lavoro realizzato male possono essere mortali. D’altronde, la Serbia di Vucic è quella in cui la tesi di dottorato del ministro delle Finanze Sinisa Mali è risultata essere frutto di plagio. Uno scandalo che, scendendo di livello, lascia più di un dubbio sulle reali competenze di chi esegue lavori pubblici.

Tuttavia, sono scandali a cui la cittadinanza è sembrata per anni assuefatta. Come dimostrano le ricorrenti percentuali elettorali a favore di Vucic, che solo Putin e Kim Jong-un riescono a superare. Il pesante bilancio della tragedia di Novi Sad potrebbe però smuovere le coscienze della cittadinanza, per anni così abituata al malgoverno e così drogata dalla narrazione delle tv di regime. Lo scenario si presenta simile a quello di maggio 2023, quando la società serba venne sconvolta da due sparatorie di massa: il responsabile dell’attacco nella scuola Ribnikar, un ragazzino di 12 anni, venne interpretato come il fallimento della collettività e, indirettamente, il frutto di una politica che ha abituato il paese alla violenza. Ne nacquero manifestazioni di piazza oceaniche, che si tradussero a fine anno in un’opposizione unita al voto. Un’unione che durò poco e si sfaldò per le classiche beghe tra partiti, ma che oggi potrebbe ricrearsi, dal momento che le responsabilità di quanto accaduto a Novi Sad sembrano molto più chiare e dirette. Con una differenza rispetto al passato: molti serbi sono stufi di fare marce indignate di protesta, infilare un voto in un’urna e non vedere alcun cambiamento.

Dal canto suo, il regime ha denunciato come l’opposizione stia manipolando la tragedia a fini politici, dimenticando però che un controllo totale comporta una responsabilità totale. La tragedia di Novi Sad non è quindi che l’ennesimo test di popolarità, forse il più arduo: per superarlo, il regime dovrà nuovamente mentire, manipolare le informazioni, scaricare responsabilità e mantenere compromessa la legalità, oltre che la sicurezza dei cittadini.

Foto: Staiewsky Art

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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