Kosovo guerra

KOSOVO: La guerra non può finire

La guerra in Kosovo non può finire o, forse, non sa come farlo. Certo non ci sono più i morti ammazzati, gli stupri, le efferatezze assortite che ogni guerra porta con sé. Anche se in fondo nemmeno questo è vero, a ben vedere: perché ci sono le Banjska coi suoi cadaveri sul terreno, le violenza quotidiane, i traumi psicologici che inchiodano al passato migliaia di donne, traumi che non solo non passano mai ma che – anzi – si tramandano di madre in figlio, come il DNA, il colore degli occhi, quello dei capelli. Non passano nemmeno le difficoltà, ancora tutte lì, così come non passa l’inconciliabilità interetnica, talmente radicata da non permettere nemmeno l’apertura di un ponte a unire i lembi slabbrati della stessa città.

Il sondaggio

Che il quadro sia questo è sotto gli occhi di tutti, che la situazione sia destinata a perdurare nel prolungamento inesauribile di una guerra che, appunto, non può finire, è invece dimostrato dai risultati di un sondaggio appena pubblicato dall’Organizzazione Non Governativa Youth Initiative for Human Rights e presentato pochi giorni fa a Pristina dal suo autore, Bekim Baliqi.

Il sondaggio intitolato “L’atteggiamento dei giovani nei confronti della guerra e dei crimini di guerra in Kosovo” interroga i giovani kosovari tra i diciotto e i trent’anni, di ogni etnia, sesso ed estrazione socioculturale e si focalizza sul rapporto che quei ragazzi hanno con un evento – la guerra – che nella maggioranza dei casi non è stato vissuto in prima persona. Baliqi li definisce “ricordi di seconda mano”, elemento– questo – fondamentale per capire quale sia il lascito di quel conflitto e quali le conseguenze che si trascinano ben oltre il tempo del suo accadere.

Due sono le parole che affiorano, prepotenti, dalla lettura del rapporto: percezione e polarizzazione, l’una conseguenza dell’altra, in una connessione causa – effetto tanto diretta quanto indissolubile.

Percezione

La percezione dei giovani verso la guerra è diretta conseguenza delle fonti dalle quali hanno attinto per informarsi. Nella maggior parte dei casi gli intervistati, sia albanesi che serbi, affermano di essersi informati dai racconti dei propri genitori o dai parenti prossimi, mentre appare meno significativa l’influenza delle cerimonie di commemorazione o del lavoro delle organizzazioni civili e religiose e, ancor meno, quella della scuola, il cui lavoro di divulgazione lascia insoddisfatto il 63% dei ragazzi.

I giovani dimostrano di conoscere molto meglio gli eventi che riguardano il proprio gruppo etnico e di ignorare quelli che coinvolgono le altre comunità. E se il massacro della famiglia di Adem Jashari è noto al 93% degli albanesi, lo stesso è quasi misconosciuto da parte serba (14%), con percentuali simili che si registrano anche per l’assassinio di cinquanta albanesi perpetrato dalle forze speciali serbe a Račak nel gennaio del 1999. Di converso solo l’11% degli albanesi sa che cosa sia successo a Staro Gracko nel luglio dello stesso anno, quando a essere trucidati furono quattordici contadini serbi, a guerra già conclusa. In tutto ciò solo un terzo di albanesi e serbi ha contezza dei crimini compiuti contro le minoranze etniche, vittime dimenticate della guerra, non pervenute nella percezione della maggior parte dei giovani kosovari.

Il tramandare orale, dunque, è così che il testimone passa da una generazione all’altra, ed è così che si forgia la percezione di quelle vicende, dandole forma – più o meno consapevolmente – a propria immagine e somiglianza.

Polarizzazione

Il passaggio dalla percezione alla polarizzazione avviene attraverso un altro elemento chiave, il vittimismo, che fa da ponte e chiude il cerchio. Lo strabismo con cui si conoscono i fatti determina una visione distorta della vicenda nel suo insieme, come se essa fosse spiata da un caleidoscopio che la deforma a seconda degli occhi che la guardano. Un rimpallo di responsabilità che determina l’impossibilità di riconoscersi reciprocamente, al contempo vittime e carnefici.

Ecco allora che il 90% degli albanesi ritiene di essere stata “vittima di una guerra imposta” e che tra i serbi solo il 39% considera giusto perseguire coloro che hanno commesso crimini contro la popolazione civile albanese, mentre tale valore si impenna all’82% se la domanda di riferisce alla necessità di incriminare quanti si sono macchiati di delitti contro i civili serbi. Pura incoerenza.

C’è nella distanza tra queste due ultime percentuali la misura di quanto sia profonda la presunzione di essere perseguitati, vittime appunto, anche del “sistema”, della comunità internazionale. Quella comunità che ha messo in piedi i tribunali che avrebbero dovuto investigare quei fatti ma che meno della metà dei giovani serbi supporta, contro il 73% degli albanesi; e questo nella convinzione che essi, non solo non possano aiutare la “pace e la democrazia”, ma abbiano il solo scopo di perseguitare la comunità serba, secondo una posizione assai popolare anche in Serbia e nella Bosnia di Milorad Dodik, presidente dell’entità a maggioranza serba.

È nel medesimo alveo che va contestualizzato il fatto che solo il 33% dei serbi ritiene che l’implementazione di programmi educativi e gli scambi culturali possano portare un effettivo beneficio nella comprensione reciproca, dimostrando indirettamente l’inossidabilità delle proprie convinzioni e l’arroccamento conseguente sulle proprie posizioni. Di contro, il 92% degli albanesi sostiene come il processo di riconciliazione debba necessariamente passare attraverso le scuse dei serbi per quanto avvenuto, ma la percentuale si dimezza rispondendo alla medesima domanda a parti invertite. Le vittime sono solo loro, pochi dubbi su questo.

La polarizzazione è la conseguenza di tutto questo, si diceva. Ci sono due comunità, ci sono due visioni, ci sono due guerre. E ancora, ci sono due verità, due narrazioni parallele senza alcun punto di contatto se non la reciproca convinzione di essere – indiscutibilmente – dalla parte del giusto.

Consapevolezza

Un appiglio di speranza in questo quadro fosco è dato dalla consapevolezza: è quella la chiave dalla quale deve partire oggi ogni tentativo di andare oltre. E la consapevolezza c’è, grazie al cielo. E sebbene la maggior parte dei giovani, di entrambe le comunità, resti convinta di non poter influire sul processo di riavvicinamento reciproco, serbi e albanesi sono altresì concordi nel riconoscere che gli eventi connessi al conflitto abbiano fatalmente influenzato la propria attitudine verso le persone dell’altra etnia.

Sapere che l’essere albanese o serbo abbia condizionato la propria visione dei fatti è, a voler essere ottimisti, un’indiretta ammissione che potrebbe esserci stato qualcosa di non oggettivo e persino irrazionale nella costruzione delle proprie posizioni, nella loro granitica inattaccabilità. È poco, davvero poco, ma a oggi è tutto quel che abbiamo.

Cristallizzazione

È tempo, dunque, di rilanciare la provocazione? Che si separino finalmente, ognuno per la sua strada e nemici come prima. È una provocazione, appunto, non una soluzione. E non lo è non solo perché significherebbe piegarsi alle “ragioni” dei perseguitori della pulizia etnica ma anche perché darebbe la stura a un infinito processo di atomizzazione, una reazione di fissione inarrestabile, mossa da questo o quel motivo, da questa o quella presunzione di purezza, perché i motivi  per separarsi sembrano sempre assai più convincenti di quelli che stanno dietro al rimanere assieme.

È passato un quarto di secolo dalla fine della guerra. Ma è come se i secondi avessero, d’improvviso, preso ad accatastarsi l’uno l’altro, a sovrapporsi, impedendo al tempo di scorrere, all’ultimo giorno di accadere davvero. Intanto la storia continua a presentare il suo conto salatissimo, anche ai giovani, anche a coloro che manco c’erano quando tutto ciò accadeva. Un sondaggio che descrive una situazione in cui il tempo si è cristallizzato e con esso la società kosovara, nonostante sia la più giovane d’Europa.

Come se quei giovani, in definitiva, non fossero mai nati veramente, come se davvero la guerra non potesse finire mai. Non deve essere così, non può essere così: e chi ha le chiavi di quella società, oggi, dovrebbe sentire su di sé una responsabilità enorme. E avere il coraggio di dire basta, una buona volta.

(Foto: IARI)

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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