I risultati del voto e, in generale, le divisioni interne alla società moldava sono spiegati attraverso due interpretazioni, riduttive e utili a determinate velleità politiche.
Il 49 a 51% nel referendum sull’ingresso nell’UE ha mostrato plasticamente le divisioni interne alla Repubblica moldava, oggetto di letture e interpretazioni di vario tipo, che spesso non indagano la realtà sociale ma servono le necessità politiche degli attori in gioco. Qui se ne individuano due principali, nessuna priva di fondamento ma entrambe riduttive e semplicistiche. In questo modo non solo si rischia di mistificare la realtà, ma si ostacola anche il dialogo e la convivenza tra le parti.
Tra Russia e Occidente: la Moldavia come trincea d’Europa
Nel 1812, a seguito della vittoria nell’ennesima guerra contro gli ottomani, Alessandro I spostava il confine meridionale dell’Impero russo oltre il fiume Dnestr. Nasceva così una nuova entità politica, sotto il controllo di Mosca, nella regione storica della Bessarabia. Da subito, quel territorio fu raccontato come una zona di confine, e non un confine qualunque. Quei 100 chilometri (o poco più) compresi tra le rive del fiume Prut e quelle del Dniester, segnavano il limes tra un mondo slavo, nato nella Rus di Kiev, e un mondo latino, spinto fin lì dalle conquiste dell’Imperatore Traiano. Un fazzoletto di terra quindi, stretto tra due mondi.
Oltre due secoli dopo, il valore simbolico di quella regione è rimasto lo stesso. Passata dall’essere una provincia del Regno di Romania a una repubblica dell’Unione Sovietica, la Moldavia oggi sembra essere l’esegesi del conflitto tra la Russia di Putin e l’occidente atlantico. Un paese all’apparenza diviso in due, congelato tra gli alleati di Mosca e quelli di Bruxelles, tra chi chiede l’annessione alla Federazione Russa e chi invece vorrebbe entrare nell’Unione Europea (e nella NATO). Secondo questa lettura, probabile retaggio della guerra fredda, la divisione domestica rispecchierebbe in toto la divisione internazionale, e i cittadini moldavi sarebbero arcieri di un’ampia battaglia che si svolge su scala globale.
Questa prima interpretazione riguarda soprattutto noi, che osserviamo le faccende orientali da Ovest; ma in generale tutti coloro che non sono direttamente coinvolti negli eventi sul campo. Da un lato, per le classi politiche, questa narrazione serve a giustificare le rispettive tattiche di politica estera adottate nella Repubblica Moldava. Ad esempio, se il Cremlino considera parte della popolazione come politicamente schierata con la Federazione Russa, allora riterrà corretto intervenire a sostegno di essa; e allo stesso modo, nei confronti dell’altro schieramento, sarà legittimo per l’UE o per la NATO dare il proprio sostegno. Dall’altro lato, per quanto riguarda i media e in generale il dibattito pubblico, questo genere di letture non sono altro che una semplificazione della realtà sociale, troppo pesante per essere sostenuta sul livello dell’attuale discussione politica.
Il problema di questa lettura è che guarda più ai nostri interessi che a quelli concreti della popolazione moldava. L’attaccamento alla Russia o al passato sovietico non per forza coincide con il supporto politico a Vladimir Putin, così come le spinte liberali e progressiste non rappresentano necessariamente valori importati e imposti dall’occidente. Associare le divisioni interne al paese al conflitto tra noi e la Russia significa ridurre la questione ad un mero problema di relazioni internazionali, e quindi semplificare. La politica estera è centrale nella vita pubblica di una nazione, e può influenzare concretamente la vita quotidiana delle persone, ma rappresenta solo uno dei tanti aspetti che formano l’identità collettiva di una popolazione.
Ingerenze esterne: infondo non siamo così diversi
La sera di domenica 20 ottobre, mentre i primi sondaggi prefiguravano la vittoria del NO al referendum, la presidente in carica Maia Sandu ha dichiarato che dei gruppi criminali avrebbero tentato di comprare oltre 300mila elettori, in “una frode senza precedenti” architettata dalla Russia per indirizzare quei voti verso i candidati dell’opposizione. Un’asserzione che faceva eco ad una notizia uscita poco prima, secondo la quale l’oligarca Ilan Shor avrebbe recapitato, con lo stesso obiettivo, oltre 15 milioni di rubli nella repubblica danubiana. Nei giorni successivi, e sta avvenendo tutt’ora, le notizie riguardanti l’ingerenza russa si sono moltiplicate, lasciando intendere che buona parte dei risultati antieuropeisti e filorussi siano stati frutto di ingerenze esterne più che di una razionale scelta degli elettori.
Nello stesso momento, da Mosca e da Chisinau, si alzava un coro che da queste parti conoscono molto bene: l’integrazione europea descritta come espansionismo dell’occidente, e i diritti umani come valori non universali ma d’importazione statunitense. Da sempre in Moldavia, l’area filorussa considera il sentimento pro-europeo, liberale e progressista non come una scelta autonoma della popolazione locale, ma come un’imposizione arrivata dall’alto volta a reprimere l’indipendenza politica e culturale della Repubblica. Su questa linea, il candidato del PSRM Alexander Stoianoglu alla vigilia delle elezioni aveva descritto l’UE come “una forza maligna che punta a soggiogare il paese attraverso prestiti di denaro”, sottolineandone l’assoluta estraneità alla realtà sociale moldava.
Non si vuole qui entrare nel merito delle due narrazioni, ma soltanto prenderle ad esempio di un più ampio fenomeno che riguarda entrambe le parti in gioco. Anche se apparentemente distanti l’una dall’altra, infatti, entrambe sono mosse dalla stessa strategia: raccontare le divisioni interne al paese come qualcosa di superficiale, in quanto viziate da fattori esterni al volere dei singoli cittadini. É questa la seconda grande interpretazione del 49 a 51 del referendum, proposta in primis dai partiti politici nazionali. L’obiettivo, tanto di Sandu quanto di Stoianoglu, è semplificare una questione cruciale, quella dell’identità nazionale moldava, che affonda le sue radici nella lunga storia della regione e che dipende solo in minima parte dalle attuali ingerenze esterne. Semplificare è necessario per governare quindi, e serve a far sembrare i conflitti entico-linguistico-culturali come qualcosa di passeggero, di estemporaneo, soggetto per fino ai meri cambiamenti politici che seguono un’elezione.
Dov’è la realtà?
Esaminare i reali motivi dietro ai risultati del 20 ottobre significa quindi indagare nelle profondità storiche, politiche, e culturali interne alla società moldava; in processi lunghi e complessi che nel corso dei secoli hanno creato legami umani e sentimentali (ancor prima che politici) tra le persone ed i territori. Un’indagine che di certo non può essere portata avanti da giornali e televisioni, il cui ruolo nell’informazione non permette di arrivare nel fondo di questioni così complesse.
Tuttavia, di certo, qualcosa si può sempre fare. Ad esempio, si potrebbe ridare centralità alle persone e ai territori coinvolti. Da tutta la faccenda, da qualsiasi lato la si guardi, ne esce fuori che almeno la metà degli elettori coinvolti sono stati privati della propria autonomia di pensiero, accettando di venderla al miglior offerente, in cambio di un’idea o addirittura di soldi. Senza dover entrare nel merito delle questioni quindi, si può cambiare l’approccio verso esse, concedendo libertà intellettuale ai moldavi (ai georgiani o agli ucraini) così come facciamo per gli inglesi, i francesi o i tedeschi.
Per finire, è bene sottolineare che le due interpretazioni qui riportate non fanno che aumentare le tensioni e i conflitti intestini alla Repubblica moldava. Molto spesso, all’identità di una persona non corrisponde una posizione politica; motivo per cui in Europa orientale è sopravvissuto per secoli un mosaico di etnie e culture diverse. Come insegnano le guerre in Jugoslavia, i processi di radicalizzazione partono sempre dall’alto, dalla politica e dall’opinione pubblica, e finiscono per coinvolgere tutti gli attori in gioco, a prescindere dalle rispettive intenzioni iniziali.
Fonte immagine: Profilo X di Nexta