I leader dei paesi del sud-est europeo si sono incontrati il 9 ottobre scorso a Dubrovnik, in Croazia, con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per ribadire il proprio sostegno all’Ucraina e riaffermare l’impegno a favorire il percorso di pace e un futuro di cooperazione e integrazione. Quello di mercoledì scorso è il terzo vertice del genere dall’inizio della guerra, dopo quelli di Atene e Tirana, rispettivamente nell’agosto del 2022 e a febbraio di quest’anno.
Chi c’era (e chi no)
A fare gli onori di casa è stato il primo ministro croato Andrej Plenković che nel suo intervento di apertura ha voluto sottolineare una sorta di debito morale verso l’Ucraina, tra i primissimi paesi al mondo a riconoscere l’indipendenza croata all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso. Plateale l’assenza del presidente croato Zoran Milanović, non invitato poiché in aperto dissidio con Plenković sulla prospettiva di un supporto militare, per quanto indiretto, a un paese che non è membro della NATO.
Con Zelenski e Plenković, al vertice hanno partecipato gli esponenti di dodici paesi: i presidenti di Montenegro, Serbia, Slovenia e Kosovo, e i primi ministri di Macedonia, Albania, Grecia e Bulgaria, nonché Bosnia Erzegovina. Moldavia, Turchia e Romania erano invece rappresentate dai rispettivi ministri degli esteri.
Cosa c’è nella dichiarazione
È un documento perentorio nei toni e inequivocabile nei contenuti quello sottoscritto al vertice, diciotto punti densi e cristallini, assai lontani dalle cautele tipiche della diplomazia internazionale e dalle formule paludate del suo linguaggio.
C’è la condanna “nei termini più duri possibili” dell’aggressione russa definita come “ingiustificabile e illegale”, ma anche il supporto all’indipendenza ucraina e al suo diritto “all’integrità territoriale nell’ambito dei confini internazionalmente riconosciuti”, incluse la Crimea e la città di Sebastopoli, nonché le province di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia che sono “parte integrante dell’Ucraina”.
Ma c’è anche il sostegno al piano di pace promosso da Zelensky descritto come “essenziale” nel percorso di riconciliazione; percorso al quale i sottoscrittori si dicono pronti a “partecipare attivamente”. Si spinge oltre, la dichiarazione, preconizzando l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea (al pari di Moldavia, Georgia e Bosnia Erzegovina) come “miglior garanzia della stabilità regionale, sicurezza e prosperità” e auspicandone addirittura l’adesione alla NATO, in ragione di un cammino di avvicinamento ormai “irreversibile”.
I rappresentanti convenuti a Dubrovinik sottoscrivono anche il proprio impegno per “assicurare alla giustizia i responsabili dell’aggressione” e coloro che si sono macchiati di “crimini contro l’umanità”, da perseguire tramite il Tribunale Internazionale che dovrà pertanto averne “piena giurisdizione”. C’è spazio anche per esprimere preoccupazione per quanto avviene intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, la cui sicurezza deve essere preservata e il cui controllo deve tornare a Kiev per essere mantenuto “in linea” con gli standard dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. La chiusura offre uno sguardo al futuro, al dopo-guerra, assicurando la piena disponibilità dei firmatari a “partecipare alla ricostruzione” del paese, coinvolgendo imprese pubbliche e private e soprattutto garantendo il “necessario sostegno finanziario, gli investimenti e le competenze indispensabili per assicurare all’Ucraina un futuro prosperoso”. Non manca nulla. O quasi.
Cosa non c’è nella dichiarazione
Quasi, appunto, e questo quasi ha a che fare con la presenza alla riunione del presidente serbo Aleksandar Vučić. Una partecipazione non prevista inizialmente – al suo posto avrebbe dovuto esserci il ministro degli esteri Marko Đurić – e annunciata soltanto all’ultimo momento. Una presenza di peso, niente affatto scontata e, dato il contesto, oltremodo significativa.
Ancor più significativa in virtù dell’inclusione nel testo – oltre agli elementi già visti e già indicativi di loro – di passaggi che configurano un implicito sostegno anche militare all’Ucraina “fornendo un supporto multiforme e continuo all’Ucraina e al suo popolo per tutto il tempo necessario”, oltre che il chiaro intento di isolare la Russia, invitando “tutti i paesi a non fornire materiali o altri aiuti alla guerra di conquista”.
Ma non è tutto, si legge anche un richiamo alle elezioni tenutesi nelle regioni occupate – centrali nella narrazione nazionalistica del Cremlino – definite “nulle e non valide”, a delimitare con inequivocabile precisione da che parte stiano i paesi dell’est europeo convenuti in Croazia. E, a questo punto, da che parte stia anche la Serbia di Vučić.
Vučić ci ha voluto mettere la faccia e lo ha fatto con coraggio o forse, più prosaicamente, con la consapevolezza di non avere in prospettiva alcuna alternativa plausibile. Una prospettiva che vede la Serbia sempre più “europea” e meno russa, come corroborato da alcune recenti scelte in campo industriale ed energetico, la questione del litio e gli accordi per la distribuzione in Europa del gas azero, solo per citare i casi più recenti.
Vista in quest’ottica è quindi del tutto trascurabile l’assenza nella dichiarazione di qualsivoglia riferimento alle sanzioni contro la Russia, sanzioni alle quali la Serbia non si è mai allineata e la cui efficacia suscita più di un dubbio. Una mancanza, secondo i media serbi, pretesa da Vučić come conditio sine qua non della sua stessa presenza a Dubrovnik, ultimo argine di quella politica dell’equilibrismo ormai alle corde. La Serbia continuerà ad aver bisogno della Russia per molto ancora, la storia di secoli non si cambia dall’oggi al domani, ma a questo punto il percorso sembra tracciato.
L’altro vertice
Ma il vertice sulla costa dalmata è stato anche l’occasione per rinfocolare altri scontri aperti, tutt’altro scenario, altri contesti. Protagonisti ancora Vučić, seppur silente, e la presidente kosovara Vjosa Osmani. E’ stata quest’ultima, nel corso del suo intervento, ad affermare quanto fu sbagliato consentire a Slobodan Milošević di sedersi al tavolo di Dayton poiché “alla fine, la riconciliazione con un autocrate è stata pagata con il sangue di oltre centomila civili innocenti” – con chiaro riferimento alla guerra che solo pochi anni dopo la pace in Bosnia avrebbe insanguinato il Kosovo – per poi concludere che “mentre lottiamo per un’Ucraina libera, stiamo anche lottando per la nostra pace e libertà. Stiamo lottando per un’Europa libera”.
L’imbarazzo del presidente serbo è stato accompagnato da più di un malumore da parte di quanti hanno ritenuto fuori luogo l’intervento di Osmani, un deragliamento in un consesso internazionale dove il focus era un altro. Una nota stonata, forse, ma comunque esemplificativa di quante e quali siano le ferite ancora aperte, anche in Europa, e di quanta strada ci sia ancora da fare nei Balcani.
(Foto: president.gov.ua)