Karakazandžiluk è una parola inventata, quasi uno scioglilingua. “La parola karakazan si trova talvolta associata agli scrittori della Bosnia Erzegovina, rappresentata come un ‘calderone nero’, un luogo selvaggio e problematico, oscuro e arretrato”, spiega a FENA l’autore, Nenad Veličković. –Luk è suffisso locativo di lingua turca, tipico delle vie del gran bazaar del centro storico di Sarajevo.
Il suo nuovo libro ha un sottotitolo un po’ ingombrante: “il nazionalismo serbo nella critica letteraria accademica delle opere degli scrittori della Bosnia Erzegovina”. Veličković, professore di letteratura serba all’Università di Sarajevo, è un impegnato anti-nazionalista, e rivendica la libertà di non insegnare la letteratura al fine di sostenere la primazia della nazione.
Nel suo nuovo libro, edito da Dram Radosti (Travnik), Veličković indaga sulla ricezione degli scrittori bosniaco-erzegovesi in Serbia, concentrandosi sulle opere di Ivo Andrić, Branko Ćopić, Petar Kočić, Vladimir Kecmanović, Vojislav Lubarda e Miroslav Toholj.
Come scrive Haris Imamović per Slobodna Bosna, “Veličković espone i terribili messaggi della letteratura della Grande Serbia e riconosce in essa uno dei principali generatori del male accaduto negli anni ’90”, dimostrando “che la grande letteratura serba ha perfidamente disumanizzato i bosniaci e preparato la confraternita cetnica al loro massacro.”
Le tesi giustificazioniste veicolate nelle opere di Lubarda e Kecmanović
Il caso di scuola è il romanzo Voznesenje (Ascensione) di Vojislav Lubarda, del 1989, in cui i serbi appaiono come moralmente e geneticamente superiori ai bosgnacchi – una tesi nazista. Secondo Veličković, nel romanzo di Lubarda, i serbi sono descritti come vittime di ingiustizia, ma persone coraggiose, sane, energiche ed eroiche, mentre i bosniaci sono descritti come degenerati morali e persino fisici. In Ascensione, in ogni casa musulmana c’è sempre almeno “uno storpio, uno senza naso, un altro con le mascelle storte, le gambe secche o la testa deforme”.
In Voznesenje, la Bosnia è definita come zona arretrata dell’Asia, piena di puzzo eterno e dell’orribile ululato dell’hodja (imam), così come di corruzione, malvagità e ipocrisia. L’unica speranza è che “venga il giorno del ritorno: uomini e donne, giovani e vecchi, a cavallo, con forconi e zappe, con falci, attaccheranno e taglieranno, calpesteranno e brucerà, brucerà tutto il bazar“.
Nel 1989, al culmine della rivoluzione antiburocratica di Milošević, Lubarda ricevette per questo romanzo il premio letterario NIN, il più importante della Jugoslavia, perché, come sottolinea Veličković, “nessun altro romanzo ha saputo meglio individuare il nemico e argomentarne la distruzione finale“.
Un punto di vista simile è esposto da Vladimir Kecmanović nel romanzo del 2018 Top je bio vreo (Il cannone era caldo). Kecmanović, nota Veličković, “presenterà i serbi come vittime e i musulmani come codardi, calcolatori e criminali”, per creare l’impressione di Sarajevo come di una “città moralmente fallita che merita la punizione in un certo senso biblico”. Questo, conclude Veličković, è il punto di vista del nazionalismo serbo “interessato a riscrivere il proprio ruolo nei crimini commessi a Sarajevo”.
Ivo Andrić e la sua ricezione e reinterpretazione in Serbia
Veličković al contempo afferma che non tutta la letteratura serba è gran-serba. In particolare, Ivo Andrić non ha diffuso nei suoi libri odio verso i bosniaci, ma ciò gli è stato attribuito dagli interpreti nazionalisti serbi e perfino bosniaci.
Nel romanzo “Il ponte sulla Drina“, la famosa immagine del contadino Radisav impalato, secondo Veličković non è una rappresentazione della sofferenza serba sotto i turchi. Per Veličković il romanzo di Andrić non è una “testimonianza della sofferenza del popolo serbo”, come sosteneva Nikola Koljević. Veličković respinge come nazionalista, anche l’interpretazione di Vuk Milatović secondo cui Radisav “rappresenta un popolo – il popolo serbo, ed è un’immagine della tortura e della distruzione di quel popolo”.
Il destino di Radisav non può essere equiparato al destino dell’intero popolo serbo. “Se uno scrittore si occupa di trauma”, scrive Veličković, “allora non può trattarsi che del trauma di un individuo“, causato dalla violenza di un gruppo (o di membri di un gruppo) i cui valori sono eticamente bassi.” Il fatto che un amministratore ottomano corrotto (Abidaga) abbia ordinato una punizione così brutale non può essere un riflesso dello stesso governo ottomano, poiché dopo la sua rimozione viene nominato un amministratore che non fa nulla di simile.
Come sottolinea Veličković, “l’intenzione dell’amministrazione ottomana non era quella di distruggere” il popolo serbo, la maggioranza dei serbi non condivide la sorte dei contadini Radisav, e nel libro di Dušan Popović O hajducim, che Andrić usa come spunto per la scena dell’impalamento, si parla di tale amministrazione in modo equilibrato, conclude Veličković.
Alla fine, lo stesso Andrić si opporrà alla rappresentazione unilaterale dell’Impero Ottomano e relativizzerà persino la violenza dell’amministrazione ottomana, sostenendo che tutti gli imperi hanno le loro prigioni e segrete. La sua visione dell’epoca dell’amministrazione ottomana, nei romanzi, è sfumata e incompatibile con le rappresentazioni del nazionalismo sia bosniaco sia serbo.
Il discorso di Vojislav Maksimović
Che l’opera di Andrić – deformata dall’interpretazione e strappata all’intenzione originaria dello stesso scrittore – sia diventata un mezzo attraverso il quale i nazionalisti serbi diffondono la loro ideologia è forse meglio dimostrato dal discorso del 1993 di Vojislav Maksimović, allora alto ufficiale di guerra della Republika Srpska, alla manifestazione Višegradske staze:
“Ricordiamo in questo momento Ivo Andrić, ricordiamo le sue lucidissime osservazioni sulle terribili pulsioni degli apostati della nostra religione e della nostra nazione. Ricordiamo le analisi raffinate della loro psiche disturbata e perversa e il loro implacabile odio verso il popolo serbo-ortodosso.”
Sullo stesso tono si colloca il discorso di Maksimović in occasione dell’erezione del monumento restaurato ad Andrić a Višegrad nel 1994, appena due anni dopo ciò che il tribunale dell’Aja definì come una campagna di sterminio e persecuzione della popolazione bosgnacca di Višegrad:
“Nessuno meglio di Andrić ha messo in guardia dall’astuzia, dall’inganno e dalla perversità di questo gruppo ibrido ‘bosgnacco’, che ha commesso crimini incommensurabili contro il popolo serbo per la religione e in nome del Profeta di Allah.”
Delineato attraverso la coscienza di Vojislav Maksimović, Andrić assomiglia più a Lubarda che a sé stesso, il che dice di più sullo stesso Maksimović che su Andrić.
Libro dell’anno
In Karakazandžiluk, Veličković disprova l’affermazione di Zoran Milutinović, professore di letteratura slavo-meridionale allo University College London, secondo cui non esisterebbe una ricezione nazionalista serba di Andrić e che ciò sarebbe stato “inventato per creare una falsa idea di due nazionalismi in lotta per Andrić”.
Quando Veličković aveva pubblicato la sua tesi iniziale in una antologia in inglese, Milutinović in Fantom u biblioteci lo aveva accusato di lisciare il pelo dei nazionalisti bosgnacchi. In Karakazandžiluk, Veličković comprova ulteriormente la propria tesi.
Foto: Imrana Kapetanović / K2.0.