La miniera di Jadar si farà. E’ questo il non detto della sentenza della Corte costituzionale serba che annulla la decisione con cui il governo, due anni fa, aveva fermato lo sviluppo del giacimento di litio da parte della multinazionale Rio Tinto
Sembrava una partita chiusa e invece no. Con una sentenza giunta nel tardo pomeriggio dell’11 luglio scorso la Corte costituzionale serba ha rimesso la palla al centro annullando il provvedimento con cui – due anni fa – il governo serbo aveva revocato le concessioni alla multinazionale anglo-australiana Rio Tinto per lo sfruttamento delle miniere di litio nella valle del fiume Jadar, Serbia occidentale.
La sentenza
Senza ovviamente entrare nel merito della questione, la Corte costituzionale adduce ragioni di metodo, affermando che con quella decisione il governo serbo dell’epoca – allora presieduto dalla premier Ana Brnabić – aveva “superato i limiti della propria competenza” violando dunque la costituzione.
Il pronunciamento della Corte era atteso, implicitamente preannunciato dalla firma della lettera di intenti tra Serbia e Commissione europea per avviare una partnership strategica per l’estrazione di litio e la produzione di batterie a ioni di litio. Era il settembre dello scorso anno e i rappresentanti della Commissione si dicevano certi che la Serbia, in quanto paese candidato a entrare nell’Unione, avrebbe rispettato i più alti standard ambientali e lavorativi. E’ sufficiente ricordare quanto sta succedendo da anni nel sito minerario di Bor per capire che questa non è altro che la classica foglia di fico, buona per le conferenze stampa.
Le pressioni politiche si erano infatti intensificate nelle ultime settimane, ai massimi livelli. Pochi giorni prima della sentenza, Brnabić si era schermita, con la più tipica delle giravolte, affermando di non fare “lobby per il litio o per la Rio Tinto” ma di farla per il paese, arrivando anche a definire “anormale” l’ipotesi di un’eventuale rinuncia allo sfruttamento di questa risorsa. Ma nelle medesime ore era stato il presidente serbo in persona, Aleksandar Vučić – da sempre favorevole alla miniera – a dirsi pronto a dare il via libera, dopo aver ripetutamente espresso “rammarico” per la cesura di due anni prima.
La reazioni
Un contesto ben noto anche alle numerose associazioni ambientaliste che già da settimane erano tornate a protestare pubblicamente con la stessa determinazione che aveva poi costretto il governo a tagliare il progetto. A fine giugno migliaia di persone erano confluite da tutto il paese a Loznica, la cittadina più vicina al giacimento, e nel giorno del pronunciamento era stato costituito un presidio di fronte alla sede della Corte. Sono già state preannunciate manifestazioni e blocchi ferroviari da parte di ambientalisti e cittadini, per nulla persuasi delle rassicurazioni sul rispetto della stringente normativa europea per la tutela dell’ambiente, cui antepongono il giudizio critico espresso dall’Accademia serba delle scienze e delle arti che non ha esitato a definire il progetto come “devastante”.
Ljiljana Tomović, professoressa di biologia all’università di Belgrado arriva, addirittura, a definire “incompatibili” la vita e la miniera, una posizione condivisa da tutte le sigle verdi del paese che chiedono ora che il Parlamento adotti, entro quaranta giorni, una legge che blocchi definitivamente la ricerca geologica e l’estrazione del litio.
Perché non andrà a finire così
Per capire quanto sia difficile immaginare una conclusione simile è sufficiente, però, ricordare alcune cifre. Con le sue 58.000 tonnellate di litio estratto ogni anno, la miniera di Jadar sarebbe la più grande d’Europa, più grande di quelle in Germania, Portogallo e Austria. Sarebbe in grado di garantire la produzione di oltre un milione di veicoli elettrici, il 17% dell’intera manifattura europea. La multinazionale Rio Tinto investirebbe 2.5 miliardi di euro per il progetto, le tasse di sfruttamento garantirebbero entrate nelle casse statali stimate nell’1% del PIL nazionale, oltre alla creazione – a regime – di almeno un migliaio di posti di lavoro, indotto a parte.
Il litio è strategicamente cruciale, è l’oro dei tempi moderni, è il carburante necessario ad alimentare l’ambizioso programma di transizione verde voluto e, fortemente sponsorizzato, dalla Unione europea, il suo fabbisogno si triplicherà entro la fine del decennio.
La Serbia avrebbe quindi un ruolo determinante in questo sforzo. Una centralità politica, dunque, prim’ancora che economica. È quindi probabile che a far gola alla dirigenza serba sia più questo aspetto rispetto al possibile indotto finanziario e sociale. A dirlo è, d’altra parte, l’attuale primo ministro Serbo, Miloš Vučević, che parla esplicitamente di “vantaggio strategico”, rivendicando la necessità di perseguire gli “interessi nazionali”. Interessi peraltro convergenti con quelli dell’Europa che, dal canto suo, ha maledettamente bisogno di emanciparsi dalla fornitura di questo materiale la cui richiesta è prevista aumentare di quaranta volte nei prossimi decenni e che, allo stato, viene cavato principalmente in Sud America – Cile, Argentina, Bolivia – oltre che in Australia e Cina.
Le contraddizioni
La miniera si farà, dunque, c’è da scommetterci, è la logica della realpolitik a dirlo. E, secondo quanto promesso (o minacciato, secondo i punti di vista), sarà pronta nel 2028. Sarà un tassello verso il traguardo dichiarato della cosiddetta neutralità climatica previsto dall’Unione per il 2050 e che, negli obiettivi stabiliti dagli Accordi di Parigi, presume la riduzione di un terzo delle emissioni di CO2 entro il 2030 e la fine della produzione delle auto alimentate a combustibili fossili entro il 2035.
Neutralità climatica, è bene sottolinearlo, che non significa – però – neutralità ambientale. È questa la contraddizione più evidente di ciò che sta accadendo. Una contraddizione forse ineliminabile, intrinseca all’esigenza odierna e alla crescente fame di energia. Il prezzo da pagare, in questo caso, è il probabile depauperamento delle risorse idriche. Per estrarre una tonnellata di litio occorrono quasi due milioni di litri d’acqua, quelli contenuti in una piscina olimpionica. Acqua che a fine processo contiene metalli pesanti, residui organici, persino arsenico, e che ha un livello di acidità tale da non consentirne la rimessa in circolo senza provocare effetti intollerabili per l’ambiente e la salute.
È necessario un trattamento accurato, trattamento che andrebbe delegato, dunque, alle società private che gestiscono gli impianti estrattivi e per le quali rappresenta solo un costo. E questo senza dimenticare il problema del deflusso e della percolazione delle acque piovane sulle scorie e sulle miniere a cielo aperto e il conseguente possibile inquinamento di falde e corsi d’acqua. Il rischio di risolvere un problema, quello climatico, ma di aprirne un altro, quello dell’approvvigionamento idrico, è quindi tutt’altro che scongiurato.
Foto: Europa.today.it