Apparentemente, la coalizione di governo formata dai due maggiori partiti della Romania ha retto bene l’appuntamento elettorale di giugno e l’estrema destra non ha sfondato. Ma sotto traccia, la diaspora e i giovani, sempre più frustrati, vanno verso destra.
Come abbiamo raccontato qui, l’alleanza elettorale Alianța PSD-PNL ha retto bene il doppio appuntamento elettorale del 9 giugno, in cui il paese ha votato per le elezioni europee e per quelle locali. Soprattutto non c’è stato lo sfondamento tanto temuto da parte del partito di estrema destra AUR.
Tutto a posto quindi?
Sotto l’apparente tenuta della coalizione di governo a firma Iohannis, le elezioni hanno fatto tuttavia emergere alcune tendenze, legate in particolare ai due veri “protagonisti” di questa tornata elettorale: la diaspora e i giovani.
Come si era visto, la diaspora si era rivelata molto più generosa e ben disposta nei confronti dei due partiti di estrema destra rispetto a chi ha votato in patria. Già nel 2020 aveva avuto un ruolo centrale a sostegno di AUR, con un rumeno su quattro residente all’estero che aveva votato per il partito, che era risultato primo in Italia e Cipro, e secondo in Francia, Germania e Spagna. Non è sempre stato così: fino a qualche anno fa, la diaspora votava tipicamente liberale, convergendo massicciamente sul PNL.
Perché quindi ora vota AUR e SOS? La risposta breve è che l’estrema destra è l’unica che parla di e alla diaspora povera, ‘di basso livello’, che è una porzione grande di chi parte. È quella che è emigrata per sfuggire alla povertà, alla mancanza di lavoro, ai salari troppo bassi, sperando di trovare una situazione migliore all’estero e che invece si è scontrata con discriminazione, pregiudizi e condizioni di lavoro e vita altrettanto precarie e difficili. Tanti sono impiegati in settori pesanti ed esposti a forte vulnerabilità socio-economica, in cui è frequente il lavoro in nero e non tutelato. Si parla di badanti, camionisti e muratori, dei famosi căpșunari, i lavoratori stagionali che dalla Romania arrivano in Europa occidentale per la raccolta delle fragole.
AUR, prima, e SOS, poi, hanno adottato temi e argomenti che hanno grandemente risuonato in questo segmento della diaspora, proponendo, in primis, una retorica fortemente antisistema: la colpa è dell’establishment politico, dei partiti tradizionali che hanno fallito, che ‘vi hanno costretto ad emigrare’. AUR parla anche di come riportare a casa questa diaspora, un argomento molto efficace per chi non voleva abbandonare il proprio paese, ma si è trovato costretto ad andarsene. I due partiti sono soprattutto nazionalisti, appellandosi ai “Românii din oriunde”, a tutti i rumeni, ovunque essi siano. “Non possiamo più parlare di paese e di diaspora”: la nazione rumena è una sola, non ci sono rumeni di ‘fuori’ e rumeni di ‘dentro’. Ed è così che, paradossalmente, questa retorica ultra-nazionalista diventa inclusiva. Questo si accompagna ad un’enfasi sui ‘veri’ valori rumeni, contro l’ideologia progressista e decadente del mondo occidentale. È un argomento che rassicura un certo tipo di diaspora (ma non solo), spesso con un basso livello di scolarizzazione, religiosa, profondamente attaccata ai valori tradizionali e dalle posizioni piuttosto conservatrici.
Questa diaspora che vota AUR e inneggia a Diana Șoșoacă si è sentita a lungo trascurata, dimenticata, persino emarginata, non solo all’estero, complici i molti pregiudizi e stereotipi duri a morire, ma anche in Romania. Chi è partito non solo ha dovuto affrontare le difficoltà lavorative, sociali e personali tipiche di chi si deve integrare in un nuovo paese, ma si è presto anche reso conto di una diffusa stigmatizzazione che avveniva in patria nei loro confronti. Da una parte, la classe politica tradizionale ha per tanto tempo messo da parte questa diaspora, deviando l’attenzione e il discorso sull’emigrazione ‘di prestigio’, quella altamente qualificata del settore high tech o i giovani della cosiddetta fuga di cervelli. Non solo, ma anche all’interno delle stesse comunità di origine emergevano sempre più spesso certe narrazioni popolari ostili e astiose, acuendo un sentimento di alienazione sempre più profonda e la dolorosa percezione di non appartenere “né di qua né di là”.
La diaspora ha iniziato a nutrire anche un senso di forte ingiustizia per il modo in cui veniva trattata. Chi partiva infatti contribuiva notevolmente dal punto di vista finanziario alle casse dello stato, mitigando la pressione e il costo sociale ed economico della disoccupazione per la politica. Ma non solo: i soldi delle rimesse, i guadagni mandati da familiari e amici dall’estero a chi era rimasto a casa, sono stati per tanti un modo per migliorare sensibilmente la qualità della vita: ci si è potuti permettere di comprare e costruire casa, o una macchina, a volte per la prima volta, c’erano i soldi per i bisogni dei bambini. Questo tuttavia non è stato privo di complesse conseguenze sul piano sociale, relazionale, emotivo, con un pesante impatto sulla comunità – spesso rurale e ristretta, in cui tutti si conoscono. Soprattutto ha pesato sui bambini, cresciuti vedendo i genitori due volte all’anno o attraverso uno schermo, i cosiddetti ‘orfani bianchi‘, sugli anziani lasciati soli, in generale su tutti quelli ‘rimasti indietro’. E poiché non più presenti nella vita quotidiana, chi partiva era percepito sempre più come ‘straniero’, venendo spesso accusato al rientro di ‘essere cambiato’, di avere acquisito abitudini e atteggiamenti occidentali, di essere diventato materialista, individualista, attaccato al soldo.
Il COVID ha agito come catalizzatore per queste tensioni sociali che già operavano sotto traccia. Con lo scoppio della pandemia, tutti quelli che hanno potuto si sono mossi per rientrare in Romania. Alcuni sono dovuti venire via forzatamente dal paese ospite perché avevano perso all’improvviso il lavoro, proprio perché impiegati nei settori più precari. Una volta “a casa”, come loro credevano, si sono sentiti pesantemente accusati di “aver portato il virus” con loro e additati come untori. Preoccupati dalle migliaia di rientri, il governo rumeno ha chiuso le frontiere e lasciato molti bloccati al confine e impossibilitati sia a tornare indietro sia a proseguire. “Anche noi siamo rumeni”, “Vogliamo andare a casa” ripetevano: per loro, casa era ancora la Romania, quello stesso paese che ora li trattava come indesiderati corpi patogeni. AUR, fondato nel dicembre 2019, appena qualche mese prima lo scoppio della pandemia, e SOS, nato da una sua costola ancora più estrema e prodotto diretto della crescente insofferenza verso le misure anti-COVID, hanno trovato terreno fertile in queste circostanze. Data la dimensione di massa del fenomeno, è un immenso bacino elettorale, che dopo anni di discriminazione dentro e fuori, frustrazioni personali e lavorative, di sentirsi trattati come cittadini di seconda classe, hanno trovato chi ‘capisce’ il loro sfogo.
I secondi protagonisti di questa tornata elettorale sono i giovani. Qualche mese fa, uno studio del think tank IRES sulle intenzioni di voto e l’opinione sulla vita politica e democratica dei giovani (18-35 anni) in Romania, commissionato dall’iniziativa civica Tinerii votează (I giovani votano), ha riportato un quadro desolante. Emerge una diffusa e generale inclinazione dei giovani verso i partiti antisistema, in primis AUR, seguendo una tendenza emersa anche in altri paesi europei, fra i quali Germania, Svezia, Austria e Danimarca.
Sconfortanti le risposte legate alla fiducia per la politica: solo il 4 percento si fida dei partiti politici, il 9 del parlamento e altrettanti del governo, l‘11 del presidente. Per il 68 percento di loro, il paese si sta muovendo “nella direzione sbagliata” – un dato interessante, visto che in realtà la stessa percentuale si dichiara “molto” o “abbastanza soddisfatto” della propria vita e solo il 15 percento vorrebbe lasciare la Romania in via definitiva, contro il 33 percento che risponde con un categorico no. Il 65 percento crede, nonostante tutto, nel potere dei giovani di cambiare le cose. Non a caso lo studio prende il nome “fra speranza e protesta”.
Però: il 76 percento dichiara di non avere fiducia nella vita democratica del paese e 8 su 10 di loro ritengono che “i politici promettono le cose senza mantenere la parola”. Il 72 percento non si interessa della vita politica del paese, ma non sembra neanche volerlo, visto che il 62 percento ammette di considerarsi meno informato della media. Il 41 percento dichiara di votare “per il male minore” e solo il 23 percento lo fa tenendo in considerazione il programma elettorale o l’ideologia del partito. Il 75 percento desidererebbe un “leader forte che non perda tempo con le elezioni e le discussioni in parlamento”, a conferma della profonda frustrazione e insofferenza per il meccanismo democratico del paese. L’astensionismo non sembra essere per il momento la soluzione per i giovani rumeni: almeno l’83 percento di loro ha detto che andrà a votare per i prossimi appuntamenti elettorali dell’anno. Con il 23 percento dei voti, AUR risulta il primo partito per cui voterebbero, seguito dal PNL e da USR a pari merito (20 percento). Se si scompone il voto, AUR risulta favorito fra i maschi (27 percento), fra chi ha fra i 25 e 29 anni (28 percento), e con un livello di istruzione elementare (35 percento).
In generale, le risposte mostrano un quadro di profonda delusione, disillusione e insoddisfazione verso l’establishment politico, confermando quindi il voto per AUR fra i giovani come un voto più di protesta che di reale radicalizzazione o estremismo. Il voto antisistema non è tuttavia nuovo di queste elezioni, un dato che era già emerso nel 2019-2020, solo che allora era stato intercettato dalla novità politica del momento, l’USR.
Due categorie molto diverse fra loro, ma entrambe che non hanno trovato ascolto nei partiti tradizionali alle loro problematiche, preoccupazioni e disagi e che hanno rivolto lo sguardo altrove, a torto o a ragione. Uno sguardo che è stato intercettato dall’estrema destra di AUR e SOS.
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