La memoria a Srebrenica. [Michel Euler/AP Photo]
[Michel Euler/AP Photo]

Martin Pollack e i paesaggi contaminati d’Europa. Per una nuova mappa della memoria

Quante sono le storie dimenticate o manipolate dell’Europa? Martin Pollack definisce il rapporto tra memoria e paesaggio in un libro fondamentale. 

Ricordare è un atto di rielaborazione del passato. Martin Pollack, giornalista austriaco esperto di Europa orientale, ha ricordi felici della sua infanzia e della campagna in cui era stato evacuato in seguito ai bombardamenti americani e all’avanzata dell’Armata rossa verso ovest. Prova un’assurda nostalgia di un periodo di privazioni materiali, aggravate dall’arresto della madre e dalla scomparsa del padre. Episodi di cui, scrive, non poteva o non voleva ricordare.

«Non doveva cadere nessun’ombra fastidiosa sulle immagini della mia infanzia né sul paesaggio in cui era pacificamente inserita. […] questo modo idealizzante di vedere le cose era dovuto al candore della mia età e alla totale mancanza di conoscenze». La visione della sua infanzia e del paesaggio di allora, scrive, «si basa su un ricordo sbagliato» (pp. 15-17).

La memoria manipola le storie dei paesaggi, senza tuttavia cancellarne le ferite. Di questo tema tratta il libro di Pollack, intitolato Paesaggi contaminati. Per una nuova mappa della memoria in Europa (Keller, 2016). Un viaggio nelle terre dell’Europa centro orientale in cui la memoria collettiva, come accade per i ricordi personali, è spesso il risultato di un atto di rimescolamento e di rimozione. Un viaggio lungo paesaggi che furono teatro di stragi abbandonate all’oblio, e che l’autore auspica finiscano al centro di una nuova mappa della memoria europea.

Di questi posti l’Europa centro orientale è piena. E se alcuni di loro sono diventati simboli della violenza, come Babij Jar e Katyń, quanti ne sono stati dimenticati, sparsi per l’Ucraina, la Romania, la Lettonia, la Lituania, i Balcani, lungo quello spazio immenso tra Germania e Russia che Timothy Snyder ha chiamato “terre di sangue”?

Ricoprire le fosse, dimenticarle e andare avanti: «A questo proposito parlo di paesaggi contaminati. Con ciò intendo i paesaggi che furono luoghi di uccisioni di massa, eseguite però di nascosto, al riparo degli sguardi del mondo, spesso con la massima segretezza. […] Le fosse vengono nascoste, confuse con l’ambiente. [..] Per gli estranei devono essere invisibili, annullarsi nel paesaggio, diventare un tutt’uno» (pp. 26-27).

Dimenticare le vittime diventa allora l’ultimo atto di rimodellamento del paesaggio: l’oblio come prosecuzione della pulizia etnica, del massacro e dello sterminio. Sono luoghi, questi, in cui «gli assassini e i loro aiutanti diventano giardinieri e progettisti del paesaggio» (p. 28).

Paesaggi che spesso, per la loro stessa conformazione, si sono resi complici ideali di tutti i carnefici, offrendo loro un sostegno speciale tramite la naturale innocenza delle regioni carsiche o delle acque dei fiumi. La profondità delle foibe o del Danubio, l’ombra dei boschi, la vastità delle gole e dei fossati, hanno spesso reso impossibile non soltanto risalire ai nomi delle vittime ma persino ai numeri. I primi, scrive Pollack, di gran lungo più importanti dei secondi.

«Vari luoghi, colpevoli diversi», scrive Pollack, ma tutti con un punto in comune: la «clamorosa violazione di tutte le tradizioni presenti nei nostri Paesi» ovvero una degna sepoltura, senza la quale «si vuole definitivamente negare ai morti la loro appartenenza alla razza umana» (pp. 34-36).

Ad emergere vi è un poi un ulteriore elemento di consapevolezza: la contaminazione dei paesaggi rende coscienti della docilità della lingua, strumento nelle mani degli assassini. Allora anche i «comandi per uccidere erano spesso camuffati con termini apparentemente innocui». «“Evacuati ad est”» si legge nel libro, «è una formulazione che sminuisce i trasporti dalla Germania e dall’Austria nei campi di annientamento» (p. 75).

Numerose fosse comuni, sostiene Pollack, sono tuttavia ancora rintracciabili. In molti casi gli abitanti del posto hanno continuato a popolare quei luoghi, a vivere nei dintorni di fosse non segnalate ma non per questo dimenticate. Spesso è la memoria dei residenti, testimoni diretti o loro eredi, che permette di individuare sepolture sommarie perfettamente integrate nel paesaggio e nella vegetazione. «Dobbiamo fare di tutto» scrive l’autore, «per sottrarre all’oblio le vittime sconosciute delle fosse comuni dei paesaggi contaminati e dare loro i nomi, i volti e le storie che meritano» (p. 54). Non sempre vi è stata segretezza nella barbarie omicida, non sempre le stragi si sono consumate in totale isolamento.

Chi è, allora – si chiede Pollack -, che desidera restringere i confini della memoria collettiva? A chi conviene perpetuare il silenzio, impedire nuovi scavi, abbandonare alla dimenticanza la storia dei luoghi? A regimi eredi delle vecchie dittature, alle popolazioni locali che si sono rese complici dei massacri, a chi – dopo aver derubato le vittime prima o persino dopo l’esecuzione – ringrazia il cielo che i fiumi siano muti, e che custodiscano il segreto anche più tenacemente di quanto non faccia la terra: «…la questione dell’identità dei morti è indissolubilmente legata a quella dell’identità dei colpevoli» (pp. 75-77).

A questo serve una nuova mappa della memoria in Europa: a riscrivere le storie delle terre, delle pianure, dei fiumi, ricordando i nomi delle vittime che questi paesaggi hanno assorbito mantenendo lo splendido aspetto di un’innocenza primordiale. Ridefinire ingiustizie e colpe, i volti delle vittime e quelli degli assassini, accorgersi dell’ordinarietà di chi è stato giustiziato e di chi si è reso carnefice a Babij Jar, a Katyń, a Kurapaty, a Biķernieki, a Ponary, a Srebrenica e – aggiungiamo noi – a Bucha e Izjum. Per rendersi conto, passeggiando tra i meravigliosi paesaggi dell’Europa centro orientale, di dove si mettano i piedi.

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