Abbiamo incontrato al Festival di Cannes il cineasta di origini bulgare Konstantin Bojanov, che ha presentato in Un Certain Regard il suo nuovo film The Shameless, di produzione indiana.
The Shameless è uno dei film più particolari della croisette: un’opera che racchiude al suo interno tematiche LGBT, una sottotrama sulla corruzione politica intensa, un film oscuro per trama ma dai colori vivaci, ma soprattutto una rappresentazione dell’India che non cade in esoticizzazioni ma che riesce a fornire un’immagine cruda, reale dell’India contemporanea e del contesto della prostituzione, ritualizzata e non – a confermarne la validità è la stessa critica indiana. A dirigere il film è però un occidentale, Konstantin Bojanov, di origini bulgare ma che presto si è spostato negli Stati Uniti, dove ha studiato arte contemporanea – cineasta che da dimostrazione di grande consapevolezza antropologica. La storia, semplice ma che racchiude diramazioni, motivi, si incentra sulla trentenne Renuka, prostituta che sfugge ad un crimine ed arriva in una città dell’India del Nord, dove incontra Omkar, ragazza diciannovenne destinata al Devadasi; la loro storia d’amore viene ulteriormente complicata dalla presenza di un cliente di Renuka, un ufficiale di polizia destinato da un partito politico popolare ad una carriera importante.
Innanzitutto, una domanda che è banale ma va posta: com’è nato il progetto di fare un film in India?
Il punto di partenza non era fare un film in India, ma piuttosto una raccolta di racconti nonfiction che ho trovato nella mia libreria di fiducia a Brooklyn. Ero affascinato da alcuni personaggi del libro. Il progetto è partito quindi come un documentario, inizialmente composto da quattro storie distinte. Nel 2012, ho iniziato a fare le riprese della prima storia, quella di una devadasi di 33 anni, dedicata ad una divinità specifica, una pratica esistita per secoli ed oggi fortunatamente illegale. Ho iniziato a lavorare con questa giovane donna e mi ha affascinato la sua tenacità ed il suo rapporto ad un’altra prostituta, un’amicizia molto intima. Non voglio implicare che fosse un rapporto di natura sessuale, non ha importanza, ma la tenerezza di quel rapporto e il supporto reciproco che riuscivano a darsi a vicenda era qualcosa che ha fatto scattare una scintilla per la storia. In termini di struttura e di sviluppi dei personaggi, la più grande influenza è stata da Miloš Forman e da Qualcuno volò sul nido del cuculo, ci sono vari paralleli tra i due protagonisti, che entrano in una sorta di comunità isolata che opera secondo le proprie leggi draconiane.
Vista la differenza di età dei due protagonisti, immagino che sia stata una sfida particolare trovare due attrici che abbiano la chimica di Renuka e Omkar. Come ha trovato Anasuya Sengupta e Pramod Agrahari?
Di solito ci metto molto a fare il casting dei miei attori, tranne se ho fortuna come nel caso di Barry Keoghan nel mio film precedente, che ha inviato un video fatto dal telefono per la propria audizione e sapevo immediatamente che volevo lui. Nel caso di The Shameless ho collaborato con una casting director di Mumbai, per otto o nove mesi. Per Renuka, mi sono interessato ad Anasuya Sengupta perché amcici comuni mi dicevano di vederne le opere d’arte. Lei è un’artista magnifica, ma continuavo a vedere la sua foto profilo su facebook e c’era qualcosa in lei, il carisma, l’attitudine, ci vedevo il personaggio. Omkar invece è arrivata attraverso l’agenzia di casting e in lei mi ha colpito l’innocenza che riusciva a rappresentare. Nella vita reale la differenza d’età non è così elevata come nel film. Abbiamo usato per il provino a Mumbai alcune delle scene più difficili per quanto riguarda l’emotività, in seguito non ho potuto incontrarle per mesi a causa della pandemia, quindi ci siamo visti solo alla preproduzione a Katmandu.
Abbiamo menzionato il 2012, adesso la preproduzione iniziata prima della pandemia: quanti anni ha lavorato al progetto esattamente?
12 anni, ho trovato il libro nel 2012, ho iniziato il documentario nel 2014, e per ovvie ragioni trovare finanziamenti in seguito è diventato difficile, dato l’argomento e l’aspetto politico.
Ciò che mi colpisce è che il film è certo oscuro per i suoi temi, ma visivamente molto vivace per i suoi colori.
Il film è come un noir, o un thriller, e quindi ne utilizza elementi estetici. Di solito lavoro sulla palette dei colori molto presto con il direttore della fotografia e lo scenografo, così come di solito lavoro a livello di sceneggiatura fin da molto presto con il montatore. In questo caso purtroppo non abbiamo potuto farlo per ragioni di budget. Io ho sempre lo scopo di creare un mondo dentro il quale il pubblico può entrare e restare fino all’ultimo fotogramma, e poi inizio a pensare a quali siano gli elementi estetici che possano costituire questo mondo.
La ho seguito su instagram dove alcuni giorni fa ha pubblicato la foto di una macchina da presa attaccata ad un carro, mi chiedevo, quali altre soluzioni sono adottate?
Le riprese sono avvenute con modalità estremamente fai-da-te. Abbiamo girato a bassissimo budget nel Nepal, dato che non potevamo girare in India sia per ragioni di budget che altre motivazioni. L’industria nepalese è minuscola, non hanno l’esperienza, che compensano con l’impegno. Il film è ambientato comunque in una città immaginaria dell’India del nord, ma girare in Nepal mi ha permesso di riscrivere la sceneggiatura per rendere il tutto più claustrofobico, un po’ per sfruttare l’architettura di Katmandu, molto claustrofobica e densamente popolata. Abbiamo costruito una casa per intero per uno dei set, che ora è usato da una famiglia che può vivere sotto un tetto.