FjalaFest

FjalaFest: i nostri consigli di lettura

Siamo stati a FjalaFest, il festival della letteratura albanese che si è tenuto questo fine settimana a Milano. Tra libri, poesie e ricordi si è parlato di molte cose: di cosa significhi essere albanesi oggi, in Italia; di come si possa recuperare la memoria storica di un paese che per anni è stato chiuso al resto del mondo; dei doveri e delle possibilità della letteratura come mezzo per rivivere una storia che sembra lontana – ma che non lo è affatto.

Fiduciosi che questa sia stata la prima edizione di molte altre, vi consigliamo alcuni libri che ci hanno particolarmente interessati. Ad introdurli saranno le parole degli stessi autori e autrici.

Ognuno impazzisce a modo suo, di Stefan Çapaliku – “È possibile che i miei ricordi partano proprio da un carcere?! Ma sì, succede, non c’è niente da fare. Alla fine, la memoria stessa non è una prigione?”. Inizia così il romanzo di Stefan Çapaliku, con un chiaro riferimento alla memoria e alla sua fallacità. Il romanzo, che narra le vicende di una famiglia albanese dagli anni Sessanta fino alla morte di Enver Hoxha, nel 1985, racconta la storia di una parte del paese. “Non bisogna però confondere – ha detto l’autore a FjalaFest – la letteratura con la storia. La mia letteratura è individuale, personale, locale. Ed è questo il suo valore aggiunto: un punto di vista molto soggettivo, come potrebbe essere quello della mia famiglia. Stesso contesto e storie diverse. La realtà va colta tra le righe ma non è detto che si tratti necessariamente di una verità storica”. Attraverso il racconto, Çapaliku mette a fuoco il dualismo tra una cultura “ufficiale” – quella del regime – ed una underground, domestica.

Anche per Tom Kuka, autore di Flama e L’ora del male, scrivere libri sull’Albania non vuol dire necessariamente raccontarne la realtà storica. “Piuttosto i miei libri devono invogliare a leggere libri storici” – ha detto l’autore. Storia e letteratura sono scienze diverse.

In Flama, come in L’ora del male, protagonista è l’epos, il racconto. Questo è inteso non come un fatto artistico, una mera performance, ma come un fatto esistenziale, la base su cui poggiare l’identità di un popolo – quello albanese – che spesso si è trovato a fare i conti con fenomeni di assimilazione più o meno violenta.

Nel pomeriggio hanno presentato i loro libri Mimoza Hysa e Rita Petro, autrici di Le figlie del generale e di Nata al contrario – questo non ancora tradotto in italiano ma già nominato al Premio per la Letteratura dell’Unione Europea 2024.

In Le figlie del generale, viene raccontata la realtà intima, famigliare di due gemelle il cui padre è un militare di alto rango durante il periodo della dittatura. Il romanzo affonda nella psicologia delle due, portando a galla la difficile rielaborazione di un sistema di regole e schemi – quello di una famiglia del mondo del potere di Tirana – che le protagoniste si troveranno costrette a rielaborare e stravolgere.

Anche Nata al contrario racconta in qualche modo la percezione: quella di una bambina che ha imparato a vedere il mondo sottosopra, in modo diverso, e che piano piano si scontra con la realtà di un paese che opprime e uniforma. La descrizione simbolica della città e della sua topografia – costellata da edifici dal forte carico simbolico, che restituiscono la chiusura del paese (le chiese riarrangiate ora come cinema, ora come palestre, le ambasciate straniere ecc.) – restituiscono nel complesso il “negativo di un passato che purtroppo si ripercuote nel presente e che non è mai passato

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