Islam nel contesto dell'Asia centrale

Dal radicalismo al terrorismo: l’Islam nel contesto dell’Asia centrale

Nel contesto dell’Asia centrale l’Islam religioso è un fenomeno relativamente recente se rapportato alla secolarità caratteristica di altre parti del mondo, ma non privo di una sua coerenza. Negli stati formatisi dalle macerie dell’URSS, la fede islamica ha avuto un ruolo importante, agendo da collante nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dall’ateismo di stampo Sovietico. Tuttavia, non sempre la penetrazione della religione di Maometto nella regione ha seguito un percorso lineare, avventurandosi spesso lungo il   sentiero pericoloso della radicalizzazione e del terrorismo. 

Provare a inquadrare il ruolo della religione islamica nei paesi emersi dallo spazio dell’Unione sovietica (URSS), dopo la sua dissoluzione nel 1991, è una questione decisamente complessa e a tratti singolare. E’ noto, infatti, che nella visione del mondo comunista la religione non ha mai rappresentato una forma dello spirito tant’è che, almeno formalmente, i cittadini dell’immenso impero sovietico dovevano essere atei. Del resto, l’URSS è stata un impero che ha aggregato nel suo grembo numerose etnie condividenti, in modo sostanzialmente coattivo, una sola ideologia.

Tuttavia, dopo la caduta dell’Urss, nel 1991, nelle ex repubbliche sovietiche con retaggi storici musulmani, come Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan, la fede islamica ha avuto un ruolo specifico, provando a riempire il vuoto politico, religioso e culturale lasciato dall’implosione dell’impero dei soviet. E nel contesto dell’Asia centrale, l’Islam è ancora oggi in piena trasformazione; un’aspetto, questo, che preoccupa non poco i governi locali  impegnati ad arginare il fenomeno in ogni modo: dall’imposizione del taglio della barba, simbolo dell’obbedienza alla Sunnah, sino alla chiusura delle scuole coraniche.

Alla base di questa trasformazione vi sono ragioni di carattere economico e ovviamente politico: in questi paesi, infatti,  l’islamizzazione attecchisce tanto più quanto il processo di modernizzazione fallisce e la stabilità dei governi vacilla. Inoltre,  a diffondersi tra la popolazione non è il culto tradizionale di matrice sufi – molto diffuso in queste repubbliche prima del dominio dell’Unione Sovietica – bensì quello molto più rigido di matrice wahhabita.

Islam tradizionale e Islam “importato”

Nello spazio ex sovietico non è inusuale distinguere tra Islam tradizionale – con il quale ci riferisce a quell’insieme di pratiche che trovano una certa continuità con il folklore e i riti autoctoni – e Islam “importato”, ossia quello maggiormente influenzato dalla corrente rigorista wahhabita e salafita. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta il principale vettore del radicalismo di matrice islamista ed è perciò osteggiato dalla maggior parte degli organi del potere secolare.

Nonostante anni di rappresaglie e tentativi di boicottaggio da parte dell’impero sovietico, la fede islamica è riuscita a preservare il suo spirito, continuando a influenzare le esistenze di milioni di credenti. Tuttavia, l’attitudine all’apertura e alla liberalizzazione – inaugurata già nel 1986 da Michail Gorbačëv  (la glasnost’) e proseguita per fasi alterne anche  dopo il 1991 – ha generato cambiamenti quasi esclusivamente quantitativi per l’Islam nel contesto dell’Asia centrale. La spinta alla costruzione di nuovi luoghi di culto – soltanto in Uzbekistan sono state restaurate o ricostruite ex novo circa tremila moschee – e la proliferazione libera da censure delle attività editoriali e dei consigli religiosi sono diventati, loro malgrado, un importante mezzo di trasmissione per  il radicalismo. L’apertura delle madrase, così come la ricca offerta dei corsi in arabo e gli insegnamenti della shari ‘a hanno rappresentato l’ambiente ideale per il fanatismo islamista.

Investendo sul desiderio di connettersi più liberamente con le pratiche tradizionali e la cultura del passato islamico, il fanatismo islamista ha tentato di far leva sulla debole consapevolezza religiosa della popolazione delle ex repubbliche sovietiche provando a instillare comportamenti politici sempre più radicali come accaduto in Tajikistan – paese particolarmente esposto agli influssi del radicalismo islamico in virtù della sua posizione geografia confinante con l’Afghanistan – e per questo definito come la porta d’ingresso del terrorismo islamista in Asia centrale.

Le relazioni pericolose tra Tajikistan e estremismo islamico trovano una loro collocazione nella cornice storica della guerra civile che ha devastato il paese negli anni Novanta. Tutto è iniziato nella primavera del 1992 quando l’esito insoddisfacente delle elezioni presidenziali del 1991 – nelle quali era stato eletto l’ex dirigente del partito comunista tagiki, Rahmon Nabiyev – diede il via ad una spirale di violenza che vide come protagoniste da una parte le forze della compagine filogovernativa sostenuta dalla Russia e dall’altra una coalizione di gruppi etnici, democratici e islamici riuniti sotto l’acronimo UTO (United Tajik Opposition).

La guerra civile tagika   segnerà un punto di svolta decisivo per l’emancipazione del fondamentalismo islamico nella regione, contribuendo a ridurre drasticamente le distanze tra i combattenti dell’UTO e l’Afghanistan talebano.  La decisione di molti guerriglieri dell’opposizione tagika si trasmigrare alla corte dei Talebani contribuirà a rendere il confine tagico-afghano più permeabile al passaggio di estremisti e terroristi animati dal furore islamista. Gli eventi degli anni Novanta in Tagikistan spiegano  perché Dushanbe continui ad essere ancora oggi – soprattutto dopo l’attentato compiuto a Mosca – così ostile al fenomeno dell’estremismo islamico, dopo che già nel 2015 le autorità tagike avevano dichiarato  fuori legge il Partito della Rinascita Islamica nell’estremo tentativo di arginare il fenomeno del terrorismo, rafforzando contestualmente il controllo statale.

La montagna e Maometto

Nel contesto dell’Asia centrale, la radicalizzazione della fede islamica si è raramente tramutata in terrorismo “accertato” fino a quando, nel luglio 2018 quattro ciclisti, di cui due americani, uno olandese e uno svizzero, sono stati uccisi nel Tagikistan meridionale. E sebbene in un video pubblicato dopo l’attacco, gli attentatori avessero rivendicato il gesto e giurato fedeltà allo stato Islamico – un’organizzazione terroristica paramilitare le cui origini  risalgono ad “al-Qāʿida in Iraq” – dopo  l’attentato le autorità provarono a minimizzare la responsabilità dell’Is, addossando la colpa al Partito della Rinascita Islamica del Tagikistan.

In Asia Centrale la minaccia terroristica è stata spesso oggetto di manipolazioni da parte dei regimi autoritari centrasiatici come quello tagiko, al fine di stringere il cappio del controllo statale intorno alla popolazione. Del resto, ricorrere alla paura di attacchi terroristici interni per giustificare l’inasprimento delle repressioni nei confronti dei gruppi dell’opposizione, rappresenta un meccanismo collaudato per  i governi illiberali in ogni parte del mondo. A dimostrazione di ciò basterebbe dare uno sguardo  agli sforzi fatti dai  governi centrasiatici nel contrasto all’estremismo religioso e al terrorismo di matrice islamista, per rendersi conto dell’altissimo numero di vittime – spesso innocenti – provocate dai metodi repressivi utilizzati dalle autorità e degli scarsi risultati ottenuti sul fronte della sicurezza interna.  E ancora una volta il caso del Tagikistan è in grado di confermare questa triste tendenza.

In definitiva, le operazioni antiterrorismo intraprese nel tempo dai governi centroasiatici non hanno risolto la vulnerabilità dell’assetto securitario della regione, nonostante in più di trent’anni di indipendenza, il numero di attacchi terroristici attribuibili all’islamismo radicale in Asia centrale non abbia fatto registrare – fortunatamente  – numeri altissimi.  Gran parte degli attacchi condotti contro i governi, le forze di polizia e di sicurezza, sono infatti una conseguenza – più o meno diretta – della mancata risoluzione delle enormi problematiche economico-sociali esistenti nella regione che hanno sistematicamente fomentato le tensioni insite nella società tagika, uzbeka e kazaka, producendo fenomeni molto eterogenei di reazione violenta e di adesione alla causa dell’estremismo politico-religioso. In un eterno ritorno di azione e reazione la svolta securitaria impressa dai paesi centroasiatici  ha finito per alimentare un circolo vizioso che ha reso i governi l’obiettivo designato degli “attacchi” stessi.

La complessa galassia del terrorismo islamico in Asia centrale

Scendendo più a fondo della questione è interessante notare come – relativamente alla diffusione dell’Islam “importato” o estero – il discorso politico all’interno delle cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, si articoli sostanzialmente intorno ai timori di istanze di estremismo e radicalizzazione, provenienti soprattutto dall’Afghanistan, con il quale l’Asia centrale condivide un confine di 2.387 chilometri. Negli ultimi anni, queste preoccupazioni sono cresciute sensibilmente in seguito al ritorno al potere dei talebani, nel 2021, e alle rinnovate minacce di attacchi in tutta la regione.

Ma i gruppi islamisti operanti in Asia centrale sono lontanissimi dal rappresentare una falange unitaria e compatta; essi sono più simili ad una galassia irregolare e in costante espansione. Ad esempio, i movimenti islamisti vicini alla corrente salafita e Qutbista come il famigerato stato islamico (Isis) – attivo nella regione e con marcate tendenze escatologiche – differiscono dai Talebani non solo sul piano dell’interpretazione teologica e dottrinale dell’Islam, ma anche rispetto agli obiettivi politici che intendono realizzare.

Forgiati dall’influenza di due correnti ideologiche affini – quella Deobandi, nata nella città indiana di Deoband nel corso dell’800 e quella wahhabita – i Talebani sono nati nel 1994 nella Provincia di Kandahar, nel cuore Pashtun dell’Afghanistan, inseguendo un obiettivo che si potrebbe definire nazionalistico: porre fine all’instabilità che regna nel Paese attraverso l’applicazione della Shari ’a.  Ma nel corso del tempo i taliban hanno ricalibrato la loro impostazione nazionalistica, divenendo un modello comportamentale di riferimento per l’estremista ideologizzato – forse più dello stesso combattente di al-Qaida – con una vocazione transazionale come  testimoniato dalla presenza di guerriglieri talebani pakistani e centroasiatici.

Diverso è, invece,  il percorso dell’Isis, fondato nel 1999 da Abu Musab al-Zarqawi sotto il nome di Jama’at al-Tawhid wal-Jihad (JTJ), il quale nel 2004 entrò nella rete di associazioni vicine ad Al-Qaeda divenendone di fatto la sezione irachena. Nel 2006, Al-Qaeda in Iraq si fuse con altri piccoli gruppi islamici sunniti formando un’alleanza nota come Consiglio della Shura dei Mojaeddin e proclamando ufficialmente lo Stato Islamico in Iraq (ISI).  Nel 2014 il caos generatosi con lo scoppio della Guerra Civile Siriana fornì all’organizzazione l’occasione per fare il decisivo salto di qualità, manifestando ufficialmente  la volontà di estendersi in tutto il mondo per far discendere la morte sul capo degli infedeli.

Negli ultimi anni, nel vasto firmamento dell’estremismo islamista di ascendenza salafita si è infine affermata una nuova stella del terrore,  l’Isis K – lo “Stato Islamico del Khorasan” (Iskp) – che prende il nome dalla storica regione nord-orientale dell’Iran al confine con Turkmenistan e Afghanistan. Con la caduta del califfato del terrore nel 2019, l’Iskp da costola dello stato islamico è diventata una delle più gravi minacce alla sicurezza internazionale rafforzando la propria reputazione attraverso una la lunga scia di attentati compiuti dai suoi miliziani in diverse parti del mondo, tra i quali sembrerebbe rientrare anche la mattanza del 22 marzo scorso al Crocus City Hall di Mosca, ufficialmente rivendicata dal gruppo.

Quanto avvenuto in Russia è una conferma della crescente ambizione terroristica dell’Isis-K di espandersi nel contesto regionale centroasiatico – iniziata nel 2015 quando il movimento è nato tra le alture dell’Afghanistan –  e sponsorizzata attraverso una campagna devastante di attentati. L’elevato grado di penetrazione a più livelli dei guerriglieri dell’Isis-K nei paesi centrasiatici – in particolare in Tagikistan – nonostante la presenza di altri gruppi jihadisti ha trasformato definitivamente la regione da importatrice a esportatrice di terroristi. La presenza di miliziani – sparsi in Asia centrale – si è rivelata particolarmente funzionale per il movimento islamista nato dalle ceneri del califfato islamico. I cittadini delle ex repubbliche sovietiche hanno infatti il vantaggio di potersi spostare all’estero con maggiore disinvoltura rispetto ai guerriglieri afghani, soggetti a maggiori restrizioni. Il fatto che i cittadini tagiki possono entrare in Russia senza bisogno di un visto ha facilitato la riuscita dell’attentato a Mosca che è costato la vita a 139 persone.

In definitiva, l’attuale caos nella regione centroasiatica – legato ai rischi dall’estremismo e del radicalismo islamista – resta difficilmente circoscrivibile attraverso una definizione univoca e universale al tipo e soprattutto alla dimensione della minaccia con cui si ha a che fare. Nell’immediato, difficilmente l’Isis-K potrebbe lanciare un’offensiva su vasta scala e nel breve periodo in Asia centrale per affermare definitivamente la propria superiorità nella galassia jihadista. Tuttavia, la sempre più rapida penetrazione del radicalismo di matrice islamista – ammantato di istanze indipendentiste e anti-russe -rischia di facilitare il cammino al sedicente califfato del Caucaso, che dopo i recenti successi in Iran e a Mosca potrebbe decidere di alzare ulteriormente la posta in gioco e convincere la leadership a riportare il terrore jihadista nel vecchio continente.

 

Chi è Tommaso Di Caprio

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