“I terroristi non hanno nazionalità”. Secondo l’istituto Carnegie, questa frase sarebbe stata pronunciata da Vladimir Putin dopo l’attentato al Crocus City Hall di Mosca, sembra essere del tutto fuori luogo. Soprattutto mentre lo stesso Putin indicava chiaramente come responsabili dell’attentato degli emigranti tagichi, al soldo dell’Ucraina e con il beneplacito statunitense. In realtà questa frase rivela due cose: una visione metafisica della Russia come fortezza assediata, nonché l’esistenza di un problema legato alla minoranza tagica.
Noi contro loro
In guerra ci si deve schierare, nonostante la complessità di ogni guerra. Sul tema si invita caldamente a rileggere Le origini della Prima guerra mondiale, di James Joll. Amico o nemico, tertium non datur, soprattutto quando una guerra lampo diventa un pantano. Per gli emigranti centro asiatici in Russia la vita non è mai stata facile, violenze da parte di gruppi ultra nazionalisti esistono da anni, ma dopo l’attentato del 22 marzo la vita si è fatta molto dura.
Restrizioni sugli emigranti centro asiatici ed i loro diritti erano già in corso da tempo, l’obiettivo quello di unire la popolazione russa in un parossismo sciovinista che distolga l’attenzione dal fronte. Dopo l’attentato la paura è forte nella comunità dei lavoratori tagichi in Russia. Sempre più numerosi i casi di discriminazione ed abuso: corse di Uber cancellate, lavoratori licenziati, nessuno vuole avere a che fare con dei terroristi, ovviamente loro.
Un problema economico
L’ultimo quinquennio è stato da record per l’emigrazione centro asiatica in Russia: quasi 980.000 kirghisi, 6sei milioni di uzbeki e tre milioni e mezzo di emigranti tagichi sono entrati in Russia in cerca di lavoro. Finendo con il diventare indispensabile manodopera in settori come la ristorazione o l’edilizia, dove al momento c’è una carenza di personale di quasi il 40%, che rischia di aggravarsi nel momento in cui dovessero aumentare gli arruolamenti di russi.
Il Tagikistan è il paese più povero dell’Asia Centrale, l’unico che ha vissuto una guerra civile e che viene, ormai da un decennio, ritenuto a rischio radicalizzazione. Identificare i lavoratori tagichi come dei nemici, rischia di rivelarsi per Mosca un’arma a doppio taglio: creare difficoltà economiche al paese e creare veramente dei nemici pronti a tutto spinti dal bisogno. Il nazionalismo rischia di ritorcersi contro sé stesso in una spirale di violenza sempre più cieca.
I rapporti Mosca – Dushanbe
Se i terroristi non hanno nazione, significa che le autorità sono consapevoli del rischio che corrono criminalizzando gli emigranti tagichi. Putin novello stregone alle prese con un difficile equilibrio tra realtà e narrazione. Quello che sembra certo è che il sanguinoso attentato non cambierà (al momento) i rapporti tra Russia e Tagikistan. Se Mosca ha dimenticato cosa sia l’ISIS-K, Dushanbe lo sa invece molto bene, subendolo e combattendolo da diversi anni.
L’ISIS-K usa canali in lingua tagica per attaccare il governo, ritenuto servo di Mosca. Gli attentatori che all’inizio del 2024 uccisero quasi cento persone in Iran erano tagichi, solo uno dei casi in cui il fondamentalismo islamico si è intrecciato con la turbolenta politica tagica, a partire dalla clamorosa defezione nel 2015 di Gulmurod Khalimov, il capo della polizia.
Mentre tutti guardano all’Ucraina, il vero pericolo per il potere russo potrebbe venire (ancora una volta) da est, dalle steppe centro asiatiche. Il grande rischio per Putin ed il suo cerchio è quello di non gestire più delle strategie che corrono sul filo del rasoio, finendo col credere davvero al mito della fortezza assediata, dove i terroristi non hanno nazionalità. Sono semplicemente altro dalla Russia e quindi nemici da combattere. Una questione complessa.