Lo scorso 14 marzo, una delegazione turca composta dal ministro degli esteri Hakan Fidan, il ministro della difesa Yasar Güler e il capo dell’intelligence Ibrahim Kalin, si è recata a Baghdad per una riunione nell’ambito della sicurezza con la controparte irachena. In seguito all’incontro bilaterale, il Consiglio di sicurezza nazionale iracheno ha preso una decisione a dir poco storica: il divieto di azione per il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) all’interno dell’Iraq. Una scelta particolarmente apprezzata da Ankara, che ad un mese dalla prossima visita di Erdoğan in Iraq ha messo così a segno un risultato importante dal proprio punto di vista nelle relazioni con Baghdad. Ma come sono i rapporti all’interno del “triangolo” Turchia-Iraq-PKK? E che conseguenze potrebbe avere all’interno del Paese questa scelta del Consiglio di sicurezza?
Iraq-PKK-Turchia: un triangolo complesso
Nato nel 1978 con l’obiettivo di fondare uno stato curdo indipendente nel sud-est della Turchia, il Partito dei lavoratori del Kurdistan dal 1984 ha intrapreso la via della lotta armata non vedendo sostanziali passi in avanti nel riconoscimento dei diritti del suo popolo. Gli scontri principali con l’esercito regolare turco da allora si sono verificati soprattutto nell’area sud-orientale turca, ma hanno avuto una forte estensione anche nel nord-ovest dell’Iraq, dove vi è la regione del cosiddetto Kurdistan Iracheno.
Un periodo particolarmente delicato per i rapporti tra le tre forze in gioco è stato quello compreso tra il 1991 e il 1995: gli anni successivi alla Guerra del Golfo. Con la perdita della centralità del governo di Baghdad e la nascita di una regione curda autonoma nel nord-ovest dell’Iraq, Ankara si trovò inizialmente costretta a trattare con i movimenti politici curdi. Allo stesso tempo però, la Turchia aveva già iniziato ad accordarsi con l’allora presidente Saddam Hussein, che permise la penetrazione dell’esercito turco entro 5 chilometri dal confine, con l’obiettivo di riprendere il controllo sull’intero Paese ed eliminare le forze curde. Da allora la presenza militare turca sul territorio iracheno è stata una costante.
Un altro momento che ha visto il capovolgimento della situazione è stato il 2003: l’anno dell’invasione americana dell’Iraq. Il primo marzo 2003, il parlamento turco si oppose all’intervento statunitense, decidendo di rimanere fuori dal conflitto. Questa scelta ebbe come effetto una crescita dei movimenti curdi, schierati dalla parte degli Stati Uniti dopo decenni di persecuzioni sotto Saddam Hussein, con conseguenti forti preoccupazioni da parte di Ankara. Preoccupazioni sopite per un breve periodo a partire dal 2013, quando dal carcere di İmralı il leader del PKK Öcalan aveva annunciato la fine della lotta armata. Ma questo processo di pace, che sembrava poter finalmente porre fine a un conflitto trentennale, è stato caratterizzato da una durata piuttosto breve. Nel 2014, mentre Kobane veniva assediata dall’Isis e le forze siriane curde dello YPG e YPJ si trovavano accerchiate, la Turchia veniva accusato di lassismo nei confronti dello Stato Islamico e in alcuni casi addirittura di collaborazionismo. Questo atteggiamento ha condotto il PKK nel 2015 a dichiarare la fine della tregua con il governo turco. Ma è nel 2019 che l’esercito regolare turco dà il via al Pençe Hareketi (operazione artiglio), con l’obiettivo di respingere ed eliminare le forze curde del PKK. Da allora, gli interventi turchi sul territorio curdo-iracheno sono stati una costante e hanno reso impossibile la riapertura di un qualsiasi processo di pace. Come si pone al giorno d’oggi la frastagliata politica irachena di fronte all’ultima decisione del Consiglio di sicurezza nazionale iracheno?
Il PKK e le altre fazioni irachene
Per comprendere al meglio il peso di questa decisione andrebbe analizzata la complessa composizione della società irachena. Tre sono i gruppi etnici-religiosi più importanti: arabi-sunniti, arabi-sciiti e curdi (sunniti per la maggior parte). I primi, nonostante siano sempre stati una minoranza nel Paese, hanno rappresentato l’élite politica irachena per tutto il periodo di Saddam Hussein. Al contrario l’altro gruppo musulmano, gli sciiti, sono sempre stati una maggioranza all’interno dell’Iraq, ma hanno iniziato a guadagnare maggior potere solo dopo la disastrosa invasione statunitense, che tra le conseguenze ha avuto un forte aumento dell’influenza iraniana sul Paese. Singolare è il rapporto tra il PKK e i gruppi filoiraniani: se da un lato vi sono sempre state forte discrepanze tra le due forze, basti pensare che lo slogan delle ultime proteste iraniane sembra sia stato coniato in principio proprio da Öcalan, dall’altro i partiti iracheni vicini a Teheran ritengono che la presenza del PKK possa bilanciare l’ingombrante presenza di un competitor regionale come la Turchia. Ma a preoccupare di più il governo di Baghdad è senza dubbio la possibile reazione della popolazione curda, in particolare quella più vicina al Partito dei Lavoratori. Oltre all’idea di creare una zona cuscinetto nel nord-ovest del Paese, l’obiettivo di Erdoğan è quello di dare il via ad una serie di progetti infrastrutturali con l’Iraq, tra cui un’autostrada che colleghi Bassora alla Turchia. Un progetto che inevitabilmente fa gola a Baghdad, ancora in ripresa dopo 20 anni drammatici.
Sarà la scelta giusta? Quale sarà la reazione del PKK sul territorio iracheno e su quello turco? Considerando la nuova ascesa dell’Isis, è una decisione saggia accanirsi contro chi della lotta all’islamismo radicale ne ha fatto una propria bandiera?