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L’Occidente tradirà l’Ucraina? L’amaro bilancio dopo due anni di guerra

L’Occidente tradirà l’Ucraina? Il bilancio dopo due anni di guerra è negativo. Gli Stati Uniti non sembrano interessati ad andare fino in fondo nel conflitto. L’Europa continua a fare affari sottobanco con Mosca. Gli ucraini intanto continuano a morire senza un obiettivo chiaro…

Sono trascorsi dieci anni dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. Correva l’anno duemilaquattordici. L’anno della rivoluzione, della fuga dell’allora presidente Janukovyč, del malcontento di alcuni e del fervore di altri. L’anno dell’invasione della Crimea e del conflitto in Donbass. L’anno in cui il Cremlino comprese che, per arrestare il declino della Russia imperiale, occorreva la guerra. L’anno che nessuno vide, ma che avviava una nuova fase nello scontro per il dominio globale. La vecchia superpotenza russa batteva gli ultimi colpi. L’Occidente, come sempre ipocrita, illudeva l’ennesimo popolo con promesse di libertà, belle parole, bandiere ai balconi. Dopo due anni dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, la pioggia stinge gli ultimi drappi. A nessuno frega più niente. Ed emerge chiaramente quanto paventato, almeno su queste pagine, fin dall’inizio del conflitto, ovvero che non si sarebbe andati fino in fondo. E non ci si andrà.

Altro che sanzioni, l’Europa e gli affari con Mosca

Malgrado i proclami, i paesi europei non hanno mai smesso di commerciare con la Russia. Fottesega della sanzioni quando ci sono Ankara, Nicosia, Erevan e persino la minuscola Ossezia del Sud a fare da sponda per la vendita di dispositivi tecnologici ed energetici, mezzi militari, beni di consumo e prodotti finanziari. In questo gioco, l’Unione Europea è stata una vuota cornice, riempita solo dal protagonismo di polacchi e baltici, invero poco decisivi.

Anche con le sanzioni in vigore, molte aziende internazionali non hanno lasciato il mercato russo continuando a pagare tasse che finanziano indirettamente la guerra. Ad esempio, nel 2022, la Banca austriaca Raiffeisen ha pagato 559 milioni di euro di tasse in Russia, “soldi con cui potrebbero acquistare novantacinque missili Kalibr utilizzati per bombardare le città ucraine” hanno dichiarato le autorità di Kiev. Non stupisca. Quando l’invasione su larga scala cominciò, nel febbraio 2022, i capitalisti europei e i politici al loro servizio si aspettavano che l’Ucraina cadesse in tre giorni. Bisognava “accettare la realtà” e continuare a fare affari, dicevano. Ma le cose sono andate diversamente. Eppure – a guardar bene – la voglia di un appeasement con il Cremlino non è venuta mai meno. Le difficoltà dell’ultima controffensiva hanno dato la stura a rinnovati appelli al realismo lasciando emergere il pessimismo e la stanchezza di molti politici europei e delle rispettive opinioni pubbliche.

Gli Stati Uniti non puntano alla vittoria

Gli Stati Uniti sono il vero regista dell’opposizione militare ai disegni imperialisti del Cremlino. Tuttavia, fin dall’inizio è emersa l’intenzione di non andare fino in fondo. La pubblicazione dei Pentagon Leaks ha chiarito la strategia americana: condurre una guerra difensiva, che erodesse la capacità bellica russa e impedisse a Mosca future aggressioni. Una guerra che non punta alla vittoria, ma al pareggio, al costo di centinaia di migliaia di vite umane. Vite sacrificate non per la liberazione del paese, ma per giungere a un appeasement, magari a qualche forma di federalismo o, peggio, a dolorose spartizioni. In ogni caso, a soluzioni che non piaceranno a Kiev.

Come abbiamo già avuto modo di scrivere, gli Stati Uniti hanno concesso finanziamenti e forniture a Kiev per un totale di 76,8 miliardi di dollari. Sembrano un sacco di soldi ma si tratta dello 0,33% del PIL americano. Gli Stati Uniti hanno speso cinque volte di più per la guerra in Iraq e addirittura quindici volte di più per quella in Corea.  Lo stesso discorso si può fare per l’Unione Europea che ha speso dieci volte di più per il NextGenerationEU (il fondo per la ripresa dopo la pandemia) e sette volte di più in sussidi energetici per i propri cittadini.  La capacità di spesa di Stati Uniti ed Europa potrebbe essere maggiore, volendo. Ma, appunto: volendoL’impressione è che non si voglia. E diventa difficile immaginare che si mantengano questi livelli di spesa ancora per anni, soprattutto con Donald Trump alla Casa Bianca.

Il presidente americano Joe Biden si è detto “fiducioso” che un ulteriore pacchetto da 60 miliardi di dollari di aiuti per Kiev verrà infine approvato dalla Camera, controllata dai Repubblicani, dopo mesi di tira e molla dovuti in larga misura alle modalità con cui si è cercato di far approvare il finanziamento, inserendolo in una legge per il controllo dei confini nazionali che nulla aveva a che vedere con l’Ucraina. Mesi in cui la Russia ha ripreso l’iniziativa militare conquistando Avdiika completando, in tal modo, la conquista del Donbass.

Turbolenze interne ucraine

Mesi turbolenti anche per la politica interna ucraina, con la rimozione di Valerij Zalužnyj, il generale che ha fin qui guidato la resistenza. A lui è stata attribuita la responsabilità del fallimento della controffensiva e, in generale, della mancanza di progressi militari sul terreno, ma la sua rimozione è soprattutto figlia delle abituali lotte intestine al sistema di potere ucraino. In ogni caso, far fuori il proprio comandante in capo a guerra in corso è un segno di debolezza. Il paese si trova adesso a un passo dal collasso militare e politico, con conseguenze imprevedibili. Solo l’arrivo degli aiuti americani potrà allontanare lo spettro della catastrofe, consentendo a Zelens’kyj – in vistoso calo di popolarità – di mantenere la presa sul governo, pur tra un rimpasto e l’altro. L’annunciata consegna di caccia F-16, prevista per giugno, va in questa direzione. Ma basterà? Vale la pena ricordare che gli aiuti non vengono offerti da Washington per spirito di carità: dei 60 miliardi suddetti, una quarantina torneranno nelle tasche americane sotto forma di acquisto di armi e forniture militari. Un affare lucroso per Washington che, fin qui, ha guadagnato sulla pelle altrui senza offrire un decisivo sostegno militare all’Ucraina.

La morte della diplomazia

Dopo due anni di guerra, il Cremlino è riuscito a superare le iniziali difficoltà, rompendo l’isolamento internazionale; eliminando i competitor interni, come Prigožin e la sua Wagner; convertendo l’economia russa alle necessità di guerra; alzando i salari e dando stabilità al rublo; stringendo le maglie del regime nei confronti del dissenso. L’Occidente invece appare stanco e poco propenso a ulteriori esborsi. La “stanchezza di molti leader europei” – evocata dalla premier Giorgia Meloni in una telefonata estorta da due comici russi – va di pari passo con la voglia di chiudere la partita nonostante le reiterate assicurazioni di appoggio “fin quando sarà necessario”.

Tuttavia, una pace negoziata sembra ancora lontana perché questa guerra è anzitutto il risultato della morte della diplomazia e delle istituzioni internazionali che fungevano da camere di compensazione per i diversi interessi. Quando ci troviamo di fronte a un presidente americano che chiamason of a bitch” il nemico, ci rendiamo conto che le capacità diplomatiche dei decisori politici rasentano lo zero assoluto. In questo deserto morale, anche un nano come Putin appare un gigante. Così, quando l’inquilino del Cremlino si dice “pronto a negoziare la pace”, sono in tanti a mettersi in fila. I governi europei non vedono l’ora di poter ricominciare a fare affari con Mosca.

Gli ucraini dovranno morire ancora per un po’ prima che si trovi un accordo, ma appare ormai certo che non ci sarà alcuna pace giusta. Un congelamento del conflitto – che non è pace ma armistizio utile all’aggressore – sarà il preludio a una sistemazione in qualche modo concordata dei nuovi confini. L’Ucraina non avrà voce in capitolo. Una previsione amara che i fatti potranno – sperabilmente – confutare. Ma adesso come adesso si fatica a non gridare al tradimento di milioni di ucraini, illusi, sacrificati e in certa misura usati. Non sarebbe la prima volta, d’altronde.

Ogni vittoria in guerra è una sconfitta. Ma perché la vittoria porti l’effettiva fine di ogni conflitto, occorre che la pace sia ispirata a principi di giustizia. Allo stato delle cose sembra però un sogno impossibile. La ferita ucraina continuerà a sanguinare a lungo, anche quando taceranno i cannoni.. Ma allora non interesserà più a nessuno.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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