Il lungometraggio di Davis Simonis sull’attrice lettone Maria Leiko ottitene ampio consenso del pubblico della Berlinale.
Nota nella germania degli anni venti come stella del cinema muto, l’attrice lettone Maria Leiko tornò in URSS nel 1937, alla vigilia di quella che sarebbe stata denominata dalla NKVD “operazione lettone”. Maria’s Silence racconta questa pagina della sua storia, ed attraverso le esperienze di Leiko inscena il dramma più ampio delle purghe staliniane – un argomento sorprendentemente poco trattato al cinema, anche se a livello contenutistico non si allontana molto da tutta la branca del cinema est europeo dedicato ai film sulla brutalità totalitaria dell’epoca sovietica: il progetto DAU, Arest di Andrei Cohn (presente a Berlino con Holy Week, il suo nuovo lungometraggio), Metronom, per citarne alcuni di recenti.
In bianco e nero e principalmente a mano libera, Maria’s Silence occasionalmente riesce ad usare sapientemente il potenziale gioco di luci ed ombre del formato, ma a volte cade in convnezionalità che spesso si percepiscono in film contemporanei che usano queste tecniche. Non si lega in modo stretto al linguaggio del cinema muto, che sarebbe potuto essere ottimale per raccontare un personaggio legato a quel tipo di cinema.
Il tempismo di Maria’s Silence è quasi sconcertante, in quanto il film si sofferma nello specifico sui metodi adoperati dal potere totalitario in Russia nei confronti di oppositori e di etnie “minoritarie” – spesso coinvolgendo come carnefici gli stessi, in quanto molti degli ufficiali NKVD presenti nel film sono anch’essi di origini lettone. Difficile non percepire un certo parallelismo con gli eventi di questi giorni.
Maria’s Silence è uno dei quattro lungometraggi di finzione est europei e del vicino oriente presentati alla Berlinale, insieme a The Editorial Office, Crossing e Holy Week.