La partita per i “corridoi” strategici tra l’Asia e l’Europa è iniziata nel 2013 con la “Nuova Via della Seta” (BRI) proposta dalla Cina per facilitare gli scambi tra i due continenti. Nel 2023, a margine dei lavori del G20 di New Delhi, i leader di India, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Unione Europea – sostenuti dagli Stati Uniti – hanno lanciato una nuova infrastruttura economica per connettere India–Medio Oriente–Europa (IMEC) e provare a contenere la crescente influenza del Dragone. Ma a scombinare le carte ci ha pensato la Turchia che si è opposta strenuamente al progetto. Lo stato anatolico sta infatti pianificando da tempo un proprio schema di connettività strategico passante per l’Iraq e noto come “Development Road Project”. Rispetto all’IMEC, il collegamento pensato da Ankara ha il vantaggio di essere già in una fase avanzata di definizione mentre il primo è ancora un concetto teorico.
“Dove passano le merci non passano gli eserciti“. Recita così una celebre massima attribuita al politico francese del XIX secolo, Frédéric Bastiat, che sintetizza in modo piuttosto efficace l’atteggiamento che ogni paese dovrebbe adottare per trarre i maggiori vantaggi possibili dagli scambi commerciali con altri attori statali, allontanando contestualmente la minaccia delle armi.
L’accordo sottoscritto di recente dai leader globali, a margine del G20 di Delhi il 9 e 10 settembre 2023 scorsi per la realizzazione di un’infrastruttura multinazionale che collegherà India, Medio Oriente ed Europa (IMEC) sembrerebbe in parte confermare l’adagio dell’economista francese, mantenendo apertissima la partita per i corridoi strategici tra l’Asia e l’Europa che vede attualmente impegnate Cina e Stati Uniti con la Russia in una posizione più defilata.
Il nuovo progetto IMEC nasce con la speranza di diventare in futuro un ideale “ponte verde e digitale attraverso continenti e civiltà”, come ha affermato la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, richiedendo un’ampia gamma di accordi tra i paesi coinvolti. L’arteria orientale del corridoio economico metterà in collegamento l’India al Golfo Persico mentre quella settentrionale collegherà il Golfo Persico all’Europa, coinvolgendo i principali attori dello scacchiere mediorientale tra cui Israele, Arabia Saudita e Giordania.
La ‘via turca’ contro il ‘rimland’ indo-mediterraneo
Articolandosi lungo una rete di ferrovie, porti e collegamenti energetici, l’IMEC punta a diventare una rotta commerciale alternativa verso l’Europa rispetto a quelle attuali, rivaleggiando direttamente con il Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud (INSTC), progetto originariamente lanciato da Russia, Iran e India nel 200, ma soprattutto con la consolidata via d’acqua che attraversando il mar Rosso giunge sino a Suez e s’innesta nel Mediterraneo. Tra i principali vantaggi attesi dal progetto, c’è sicuramente la possibilità di facilitare l’incontro tra la grande domanda di energia verde europea con le ricche offerte provenienti dal Medio Oriente, che per sua conformazione naturale si presenta come luogo ideale per implementare la produzione di energia rinnovabile e idrogeno verde a basso costo.
Sul piano geopolitico, l’attuazione di un progetto di tale portata che si snoda su due continenti, s’inserisce nell’ambizioso piano di Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII), creato dal G7 per contrastare la Cina nella regione Asia-Pacifico. Il “rimland indoeuropeo” – come viene spesso chiamato l’IMEC – è pensato infatti per legare il subcontinente indiano all’Europa, via Medio Oriente, arrestando l’ascesa commerciale di Pechino, affermatasi negli ultimi dieci anni grazie all’implementazione della Belt and Road Initiative (BRI). Ma nonostante l’ambizione del progetto e l’invito degli Stati Uniti desiderosi di bruciare le tappe per togliere spazio a Pechino, il memorandum d’intesa sottoscritto in occasione del G20 fornisce poche indicazioni su quali saranno i tempi e i modi di realizzazione del grandioso piano di investimenti. Per ora, il documento siglato al G20 si limita a definire soltanto gli obiettivi del progetto, ma non fornisce una roadmap esaustiva circa la sua attuazione né stabilisce come questo sarà finanziato.
A questo primo vuoto di natura programmatica e politica, se ne aggiunge subito un altro di portata geopolitica: le crescenti tensioni in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale riesplose dopo l’attacco lanciato dal movimento islamista palestinese Hamas a Israele lo scorso 7 ottobre. La controffensiva israeliana in corso a Gaza ha infatti frenato il processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i Paesi del Golfo, indispensabili non solo nell’architettura dell’IMEC ma anche nel contenimento dell’azione destabilizzante dell’Iran nella regione. E dulcis in fundo, ci sono le sopraggiunte difficoltà con la Turchia che non sembra intenzionata ad avallare il piano d’investimenti messo a punto dalle economie del G7.
Il diniego di Ankara trova una sua ragion d’essere nelle ambizioni del Presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan di portare avanti in totale autonomia un proprio schema di collegamenti commerciali per vincere la partita per i corridoi strategici giocando in solitaria rispetto ai paesi del G7. Il piano messo a punto dalla Turchia è il Development Road Project (DRP), una rete di ferrovie e autostrade lunga 1.200 chilometri – dal costo stimato di 17 miliardi di dollari – che irrorerà l’intero territorio dello stato anatolico collegando il Grand Faw Port, uno degli impianti portuali più importanti dell’Iraq, nella città di Bassora, (ricco di materie prime e petrolio) direttamente con l’Europa.
Il piano di Erdoğan per riportare la Turchia al centro del Mediterraneo
A lamentarsi del nuovo progetto IMEC non c’è soltanto la Cina che teme per una riduzione del proprio charme offensive portato avanti attraverso la BRI, ma anche la Turchia. Il piano di connettività strategica lanciato da Ankara punta a rendere lo stato anatolico il punto di contatto principale tra Europa e Asia nel solco di una politica estera sempre più assertiva. Dopo il G20 di Delhi – orfano di Cina e Russia – Erdoğan non ha infatti perso tempo e ha comunicato ai media la sua idea di costruire un’altra infrastruttura economica in aperta competizione con l’IMEC.
A differenza del ‘corridoio’ indo-mediterraneo, che è ancora un semplice concetto, il DPR lanciato dalla Turchia sembrerebbe però essere in una fase di definizione molto più avanzata. Il Progetto del Development Road Project è stato annunciato a maggio e dovrebbe essere completato entro il 2025 come evidenziato dallo stesso Erdogan che ha riferito di trattative già avviate tra Ankara e gli Stati toccati dal percorso, in particolare Emirati Arabi Uniti e Qatar contesi anche dalle economie del G7. Il leader turco ha dichiarato di aver raggiunto con il Presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed un’intesa sulla realizzazione del DPR, proprio durante il G20. Alle dichiarazioni di Erdoğan hanno fatto seguito quelle del Ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan che ha sottolineato i progressi tra Turchia e Iraq, altro paese centrale per la realizzazione dell’infrastruttura voluta da Ankara.
Quanto appena visto pone la Turchia in un vantaggio piuttosto netto nella partita per i corridoi strategici. E tuttavia, anche il DPR ha davanti a sé sfide complesse da affrontare come quella dell’instabilità politica che affligge l’Iraq. Infatti, anche se la situazione interna è migliorata nettamente negli ultimi anni, la presenza di gruppi di miliziani (Is, Pkk) operanti sul territorio iracheno rappresenta pur sempre una minaccia per la sicurezza del paese come dimostrano i recenti scontri tra combattenti sostenuti dall’Iran e manifestanti curdi a Kirkuk. Dal punto di vista turco, il dossier securitario costituisce come sempre una priorità soprattutto dopo la rottura da parte del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) del cessate il fuoco unilaterale con la Turchia che era stato dichiarato dopo il terremoto di febbraio. Per Ankara il Pkk è un’organizzazione terroristica a tutti gli effetti nei confronti della quale le forze militari turche compiono sistematicamente attacchi aerei nel Kurdistan iracheno. L’ultimo raid è avvenuto la sera de 23 dicembre 2023 quando sono stati bombardati 29 obiettivi tra la Siria e l’Iraq in risposta alla morte di 12 soldati turchi in un attentato compiuto dai militanti curdi.
Alla crisi per la sicurezza è strettamente connessa quella relativa alla governance e alla condivisione del potere. La presenza di gruppi d’influenza che fungono da mandatari di potenze straniere e la tendenza pro-iraniana della maggioranza di governo rappresentano sicuramente un ostacolo perché impediscono all’Iraq di tessere relazioni più strette con i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), interessati a investire nel DPR promosso dalla Turchia. Inoltre, permane sullo sfondo il problema della mancata riconciliazione tra il governo federale iracheno e la regione del Kurdistan; Erbil e Baghdad hanno questioni irrisolte sul bilancio e sulla condivisione dei proventi petroliferi dopo il rifiuto della Turchia di riaprire il suo porto di Ceyhan alle esportazioni di greggio iracheno.
Il ruolo del Qatar nella partita per i corridoi strategici
Per evitare di rimanere incagliato nelle dispute interne irachene, Erdoğan ha intenzione di coinvolgere quanti più attori possibili per provare a collocare il progetto in un quadro regionale, piuttosto che dipingerlo semplicemente come un’iniziativa bilaterale tra Turchia e Iraq. In tal senso, la visione di Ankara è in linea con la politica di multilateralismo praticata ormai con successo anche dai Paesi del Golfo sulla cui linea d’onda si collocano le iniziative di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che nel luglio 2023 hanno raggiunto un accordo con Baghdad per investire 3 miliardi di dollari ciascuno nel paese. Gli emiratini si sono spinti anche oltre inviando nello stesso mese una delegazione di funzionari governativi in Iraq per discutere con il Ministro dei Trasporti della realizzazione del DPR.
E poi, Erdogan può sempre contare sugli ottimi rapporti con il Qatar che oltre a finanziare pressoché tutte le iniziative di politica estera di Ankara si è ormai ritagliato un ruolo da mediatore chiave nello scacchiere mediorientale come dimostrano i recenti successi diplomatici nello scambio di ostaggi a Gaza tra Israele e Hamas. Recentemente, il Ministro turco delle Infrastrutture, Abdulkadir Uraloğlu, ha dichiarato che anche Doha è interessata al progetto del DPR. Se il Piccolo stato del Golfo – che possiede le terze riserve mondiali di gas naturale, precedute solo da Russia e Iran, con una stima di circa 890.000 miliardi di metri cubi – decidesse di schierarsi dalla parte di Ankara nella partita per i corridoi strategici tra l’Asia e l’Europa, finanziando il mega-progetto infrastrutturale turco, potrebbe beneficiare di uno schema di collegamento alternativo verso l’Europa nei casi in cui la via d’acqua del Mar Rosso dovesse diventare improvvisamente più ‘calda’.
Del resto, l’instabilità in Medio Oriente è tutt’altro che un fenomeno transitorio e gli sviluppi internazionali degli ultimi anni come la guerra Russia-Ucraina e l’epidemia di COVID-19, hanno profondamente influenzato il contesto globale e geopolitico dimostrando che la rotta di trasporto internazionale transcaspico è un percorso alternativo affidabile. E il ritorno della guerra a Gaza sembrerebbe poter rafforzare questa tendenza: il conflitto tra Hamas e Israele ha dato coraggio anche a gruppi armati come i ribelli yemeniti Houthi, pilotati da Teheran, che hanno preso di mira le imbarcazioni commerciali passanti per lo stretto di Bab al-Mandeb costringendo Doha a sospendere i traffici di gas naturale liquefatto (Gnl) verso l’Europa e a guardare con maggiore interesse esattamente in direzione dell’alleato turco.