L’UE apre ai negoziati di adesione per l’Ucraina. Orban non pone il veto in cambio di soldi, ma Kiev non soddisfa ancora i requisiti…
Il Consiglio Europeo ha deciso di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina. Lo ha affermato il presidente Charles Michel sottolineando come alla decisione del Consiglio europeo sull’apertura dei negoziati per l’accesso dell’Ucraina “nessuno ha obiettato”. Nemmeno l’Ungheria di Viktor Orban. Insieme all’Ucraina, semaforo verde per la Moldavia mentre la Georgia ha ottenuto lo status di candidato. Tutto è andato come doveva andare.
Il prezzo di Orban
“Non ci sono le precondizioni” asseriva il primo ministro ungherese, Viktor Orban, alla vigilia del voto del Consiglio europeo, agitando lo spauracchio del veto per bloccare l’adesione ucraina all’Unione Europea. Alla fine il denaro ha accomodato ogni cosa. I solidi principi del premier ungherese sono stati ammorbiditi da dieci miliardi di euro. Tutto ha un prezzo, d’altronde. Nemmeno troppo elevato.
Quei soldi giacevano congelati nelle casse di Bruxelles in attesa che il governo magiaro si decidesse a fare una riforma della Giustizia che garantisse l’indipendenza del sistema giudiziario. Una riforma che è infine stata fatta, almeno secondo il commissario responsabile per la Giustizia, Didier Reynders, attraverso l’adozione di quattro misure atte a garantire l’indipendenza della magistratura e limitare i rischi di influenza politica. Messa così, niente da dire. Ma se guardiamo le tempistiche è difficile non parlare di un vero e proprio mercimonio: il primo dicembre infatti la Commissione aveva annunciato lo sblocco “fino a un tetto massimo” di 10 miliardi di euro “prima del 15 dicembre”. Orban ha cominciato a fare ostruzionismo sull’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina praticamente dal giorno dopo. Infine, il 13 dicembre, è giunta la conferma dello sblocco. Così il 14 dicembre, giorno della votazione del Consiglio europeo, Orban ha fatto la sua sceneggiata, berciando, minacciando, ammonendo, per poi uscire dalla sala consentendo a Kiev di intraprendere il cammino europeo. Una manfrina inutile. Tuttavia Orban si mostra ancora una volta un abile opportunista, che fa affari col Cremlino e prende soldi dall’UE senza colpo ferire.
Ma per l’Ucraina non è un semaforo verde
Adesso occorre addentrarsi un poco nei meandri delle istituzioni europee e dei suoi regolamenti. Il voto espresso dal Consiglio europeo ha un valenza politica, ma non avvia davvero i negoziati di adesione. Questi ultimi potranno cominciare solo a seguito di un voto positivo, all’unanimità, da parte del Consiglio dell’Unione Europea – eh già, ci sono due consigli con nome e composizione simili, ma funzioni diverse – che si esprimerà a marzo 2024. Allora bisognerà valutare se l’Ucraina avrà effettivamente soddisfatto i requisiti, cioè le precondizioni di cui parlava Orban. Che non ci sono, e su questo aveva ragione. Al momento sono state soddisfatte solo 4 pre-condizioni su 7 (riforma di due organi giudiziari e area dei media, riforme della Corte Costituzionale e norme anti-riciclaggio, come si legge nel Pacchetto Allargamento 2023. Le priorità ancora non pienamente soddisfatte sono quelle che riguardano lotta alla corruzione, riduzione dell’influenza degli oligarchi e protezione delle minoranze nazionali. Quest’ultima, in particolare, riguarda non il trattamento delle minoranze romena, ungherese e soprattutto russa. Si tratta di passaggi obbligati che il governo di Volodymyr Zelens’kyj dovrà affrontare in breve tempo.
Uno specchietto per le allodole?
L’Unione Europea ha pubblicamente sostenuto lo sforzo di autodifesa ucraino, ma – paradossalmente – i suoi stati membri sembrano assai più tiepidi rispetto a quanto emerge a Bruxelles. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, l’Unione Europea ha finanziato in modo limitato lo sforzo di autodifesa ucraino e, per fare un paragone, ha speso dieci volte di più per il NextGenerationEU (il fondo per la ripresa dopo la pandemia) e sette volte di più in sussidi energetici per i propri cittadini. È vero che si tratta di fondi a uso interno, e non si possono paragonare le mele con le pere, ma è anche vero che la capacità di spesa dell’Unione Europea potrebbe essere maggiore, volendo. Ma, appunto: volendo. L’impressione è che non si voglia. E diventa difficile immaginare che si mantengano questi livelli di spesa ancora per anni.
Non possiamo nemmeno dimenticare come, all’indomani dell’invasione della Crimea nel 2014, la Germania abbia continuato a investire nel gas russo a basso costo, aumentando le forniture e consentendo al Cremlino di accumulare capitali utili a finanziare la produzione bellica. E nemmeno come le cancellerie di Berlino e Parigi si siano spese per un congelamento della guerra in Donbass che, attraverso gli Accordi di Minsk, era sfavorevole all’Ucraina ma utile agli affari – ai loro affari – con Mosca. E neppure della “stanchezza europea” evocata dalla presidente del consiglio italiano, Giorgia Meloni, in una telefonata estorta da due comici russi. La stessa Meloni, tra l’altro, ancora nel 2019 esaltava Putin come difensore dei valori europei.
Come si può conciliare l’immagine di questi paesi tentati dall’appeasement con quello di un’Europa pronta a sostenere Kiev fino alla fine? Non si concilia. Tanto più che i decisori politici sono influenzati dagli stati emotivi dell’opinione pubblica che appare sempre meno coinvolta e solidale con Kiev. L’Eurobarometro mostra come nell’insieme gli europei continuino a sostenere la causa ucraina, ma con minore entusiasmo, sia per quanto riguarda l’invio di armi, sia per il sostegno finanziario (qui il report aprile 2022, qui quello agosto 2023). Il conflitto israelo-palestinese e l’emergere di nuovi focolai di tensione sta già spostando l’attenzione dell’opinione pubblica su altri temi. Altre immagini di morte e ingiustizia entrano nelle nostre case, sovrascrivendo le precedenti ucraine, e spingendo all’indifferenza o all’oblio. Insomma, il tempo ci dirà se le reiterate assicurazioni di appoggio “fin quando sarà necessario” e le prospettive di adesione all’UE e alla NATO, sono sincere oppure si tratta di specchietti per le allodole. Tutto in attesa di capire cosa vorrà fare Washington, da cui dipende – in larga misura – anche la posizione europea.