Dopo dieci giorni di serrata totale, si è concluso nella notte tra il 2 e il 3 novembre scorsi lo sciopero indetto dai lavoratori del complesso minerario di Trepca, a Mitrovica, nel nord del Kosovo. Un’iniziativa che ha avuto persino un inusuale riscontro internazionale con la solidarietà espressa dall’United Mine Workers of America in una lettera indirizzata al primo ministro kosovaro in persona, Albin Kurti.
Le ragioni dello sciopero e l’accordo
L’accordo raggiunto tra il ministero dell’economia e il sindacato sembrerebbe recepire in pieno le istanze dei minatori che comprendevano il miglioramento delle condizioni di sicurezza (sono almeno venti i morti registrati solo negli ultimi anni), la stipula di un’assicurazione sanitaria e un aumento salariale significativo. Punto, quest’ultimo, che era stato fortemente contrastato dal governo, che nei giorni della protesta aveva diramato un comunicato rivendicando come, durante l’anno, gli stipendi dei minatori fossero aumentati di quasi il 20% ponendoli su un valore compreso tra 750 e 950 euro, superiore dunque al valore medio dei salari in Kosovo, fermo a 700 euro.
La disputa tra il colosso minerario Kosovo Trepca e i rappresentanti dei lavoratori si trascina, in realtà, da diverso tempo, anche in ragione del mancato versamento – dell’impresa nelle casse dei sindacati – della percentuale di stipendio che ogni lavoratore paga come quota d’iscrizione ai sindacati. E, cosa ancora più grave, per l’inadempienza aziendale nel pagamento dei fondi pensione, una posizione debitoria plurimilionaria originatasi tra il 2019 e il 2021, tale da richiedere l’intervento dello stato con l’immissione di 20 milioni di euro nelle esangui casse societarie, a febbraio di quest’anno.
Ascesa e caduta di un gigante
La situazione odierna della Kosovo Trepca non rende giustizia a quella che, una volta, era la principale azienda del paese. Fondata nel 1925 dalla società inglese Selection Trust, le miniere portarono rapidamente uno sviluppo insperato in un’area storicamente depressa. Furono realizzate infrastrutture, completato il collegamento ferroviario con Pristina e Skopje, costruiti uffici, hotel e abitazioni per le persone che vi confluirono da tutte le regioni limitrofe e persino dall’estero. Curiosamente la casa del direttore generale dell’epoca è oggi la stazione di polizia di Zvečan, cittadina assurta alle cronache di recente per i drammatici scontri del maggio scorso.
La storia di quello che nel giro di pochi anni divenne un vero e proprio gigante industriale è indissolubilmente legata a quella del paese, la Jugoslavia ieri, il Kosovo oggi. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – dopo che durante l’occupazione nazista fu utilizzata dai tedeschi – Trepca divenne il più grande impianto minerario dell’ex-Jugoslavia con una capacità estrattiva che rappresentava il 70% dell’intera potenzialità del paese: piombo, zinco, argento – perlopiù – ma anche oro, rame, tungsteno. Trepca divenne “Kombinat Trepca”, un gruppo industriale costituito da oltre quaranta società con interessi in campo minerario, metallurgico, chimico e residenziale, con alberghi e stabilimenti termali. E persino una squadra di calcio (con una recente partecipazione ai preliminari di Champions League nel 2017). Vi lavoravano oltre ventitremila persone, le esportazioni superavano l’equivalente del centinaio di milioni di euro ogni anno.
L’”era” del presidente Slobodan Milošević coincise con l’inizio della fine: sono gli anni della revoca dell’autonomia costituzionale del Kosovo e dei conseguenti scioperi dei dipendenti di etnia albanese che costruivano la grande maggioranza della forza lavoro: quello del febbraio del 1989, associato a uno sciopero della fame, ebbe una risonanza internazionale e indicò al mondo cosa sarebbe successo di lì a poco. Ma sono anche gli anni della “sostituzione etnica”, con il progressivo licenziamento di gran parte dei minatori albanesi – rimpiazzati da personale serbo e, persino, polacco, bulgaro, ceco – e anche gli anni della riorganizzazione delle diverse società di Trepca (al pari di molte altre imprese pubbliche kosovare) che vennero riregistrate in Serbia per volere dell’allora ministro dell’Energia Nikola Šainovic, finito poi nelle galere dell’Aia.
Il risultato fu un crollo drammatico nella produzione cui, va detto, contribuirono in modo significativo anche le sanzioni imposte al regime serbo dalla comunità internazionale.
Trepca sul percorso di pace tra Kosovo e Serbia
Il complesso minerario si sviluppa, oggi, tra quello che è divenuto il settore settentrionale del Kosovo – a prevalenza serba – e il resto del paese, perlopiù albanese. La posizione perfetta per farlo diventare oggetto di uno dei tanti punti di controversia tra Pristina e Belgrado che, infatti, ne rivendicano reciprocamente la proprietà. Una posizione che si riflette anche nella suddivisione della mano d’opera, serba a nord, albanese altrove.
Nel 2015 il governo kosovaro ha promosso una proposta di legge per l’adozione del cosiddetto Statuto di Trepca, di fatto una nazionalizzazione degli stabilimenti con un controllo statale sull’80% delle azioni. Un disegno legislativo che, tra crisi di governo e dispute internazionali, ha richiesto anni per giungere alla sua definitiva conversione in legge, arrivata – infatti – solo nel febbraio del 2019. Ma anche un’iniziativa che, fin da subito, ha suscitato le pesanti critiche sia da parte della Serbia, sia da quella dei lavoratori serbi nel nord del Kosovo.
Già all’indomani della proposta, il presidente serbo, Aleksandar Vučić, si era affrettato a definire “nulla” la decisione, dicendosi anche indisponibile a cercare un arbitrato internazionale in quanto ciò avrebbe significato “riconoscere il Kosovo come Stato”. Il ministro degli esteri serbo dell’epoca, Ivica Dačić, sollevò la questione addirittura nel corso di un Consiglio di Sicurezza dell’ONU chiedendone l’intervento per abrogare il dispositivo “per evitare conseguenze legali e di sicurezza che minaccino di compromettere la stabilità in Kosovo e nella regione”.
Per parte loro i rappresenti della Lista Serba – il partito etnico che rappresenta la maggior parte dei serbi nel nord del Kosovo – inserì la Trepca nell’ambito del più generale piano di boicottaggio delle istituzioni statali kosovare, promuovendo scioperi a ripetizione e rifiutandosi di nominare i propri rappresentanti nel Consiglio dei supervisori, l’organo dirigenziale di fabbrica previsto dalla nuova legge. Il tentativo di mediazione della portavoce slovena dell’Unione europea, Maja Kocijančič, per l’inclusione della disputa “nell’ambito del dialogo mediato da Bruxelles” servì solo a provocare la reazione stizzita di Pristina che la bollò infatti come una “inaccettabile violazione della sovranità del Kosovo”.
Il gruppo Trepca che nel periodo jugoslavo rappresentava i due terzi dell’intera produzione economica del Kosovo è oggi una realtà decotta, gravata da oltre un miliardo di euro di debiti e con una forza lavoro ridotta a poche centinaia di addetti. Ma mai come adesso la sua storia centenaria sembra collimare con quella del paese: il futuro della fabbrica, così come quello del Kosovo, è imprescindibilmente legato a quanto il dialogo e il processo di normalizzazione con i vicini serbi possa davvero progredire. Un obiettivo che sembra oggi – dopo i drammatici sviluppi delle ultime settimane – ancora più lontano, se possibile.
Sullo sfondo la preoccupazione dei lavoratori per il proprio di futuro, serbi e albanesi uniti almeno in questo: Shyqyri Sadiku, rappresentante sindacale albanese, si diceva preoccupato che “la cattiva gestione” potesse portare alla “bancarotta”, mentre il suo omologo serbo, Dušan Dragović, affermava di “non essere ottimista per il futuro”. Era il 2017, siamo ancora fermi lì.