confine armeno-azero

CINEMA: “Landshaft”, psicogeografia del confine armeno-azero

Dal parabrezza venato si vedono cespugli spogli ai bordi e un cielo plumbeo. Un sali e scendi di dossi, tra fango e neve. “La strada è ondulata perchè così i pescatori se la godono” commenta il ragazzo alla guida di una Lada. Non ancora maggiorenne, tra tre mesi lo aspetta la leva obbligatoria. La sua macchina color crema si allontana dal lago Sevan e procede a tappe verso il punto finale del suo Paese. Non mero mezzo di trasporto, ma uno degli espedienti narrativi principali del documentario Landshaft di Daniel Kötter, usata per esplorare la psicogeografia dei luoghi attraversati e parlare di un conflitto. Girato nella regione di confine tra Armenia del sud ed Azerbaijan tra la primavera del 2021 e aprile del 2022, dopo la fine della seconda guerra del Nagorno-Karabakh, è il risultato di una collaborazione con Sona Karapoghosyan, Nune Hovhannisyan, Eviya Hovhannisyan e Armen Papyan. Già presentato in vari festival, il documentario è stato parzialmente criticato in Armenia per alcuni contenuti ritenuti propagandistici pro Azerbaijan. È stato invece proibito nel Paese confinante dal ministero della cultura, nonostante l’iniziale selezione al Doku Baku International Documentary Film Festival.

Protagonista indiretto della pellicola è la miniera di Sotk. Aperta ufficialmente nel 1976 in epoca sovietica ma sfruttata intensamente già da inizio anni 50 del secolo scorso, è divisa tra i due stati. Gestita dalla russa GeoPro Mining Gold, è attualmente non attiva. Il luogo in quanto tale non viene mai mostrato, l’obiettivo racconta piuttosto la vita nel territorio direttamente limitrofo. Un ritratto corale, non lineare, in cui storia e vicende attuali s’imprimono nel paesaggio ed hanno effetti concreti su chi ci abita. Aneddoti, ansie, confusione, desiderio di andarsene, il vedere la terra come elemento identitario e di profitto. Non c’è una necessaria corrispondenza tra il livello visivo e quello audio: scene e dialoghi sono spesso in contrasto, si sovrappongono e completano a vicenda, creando una narrazione stratificata che rispecchia la realtà. I dialoghi, selezionati in fase di montaggio dallo stesso regista tra circa 50 ore di registrazione, sono infatti estratti di conversazioni tra armeni, senza la mediazione di un traduttore o di una traduttrice, e in sua assenza. La guerra, e le sue conseguenze pratiche, viene mostrata nella sua non spettacolaritá, nella sua “normalità” per i locali e non per un pubblico mediatico internazionale. Tutto si traduce in un senso di precarietà, d’incertezza e di paura. Questi stati d’animo si percepiscono sul piano acustico, con le persone in grado di distinguere tra le esplosioni provenienti dalla miniera e quelle generate dal conflitto.

Oltre alle montagne innevate che incorniciano il tragitto della Lada e del treno che due volte al giorno collegava la miniera a Yerevan, l’occhio entra in una dimensione più intima con alcune riprese di ambienti interni. Pochi primi piani, le persone sono prevalentemente presenti attraverso i racconti, con parole e voci, piuttosto che con corpi e volti. Una scena in particolare ritrae due donne in cucina alle prese con un rituale, e permette alla narrazione di creare un ponte tra il visibile e l’invisibile, dando una chiave d’accesso alla dimensione psicologica del territorio. Improvvisamente poi la prospettiva si restringe sui dettagli e si osservano mani laboriose durante la raccolta delle patate, o anche l’acqua tirata via con un secchio dal fondo di una barca. Come pure si segue il movimento lento degli animali, gli unici a permettersi, liberi e incuranti, di attraversare i confini. Fino a ritrovarsi dentro ad un gregge di pecore, una scena che risulta violenta rispetto alla calma (apparente) dei luoghi percorsi, e lascia lo spettatore a riflettere, senza dare risposte definitive.

Etica ed estetica del lavoro di Daniel Kötter

Regista di teatro e documentarista, Daniel Kötter ha portato la sua cinepresa in giro per il mondo, sconfinando tra generi diversi, e con un approccio collaborativo. Dichiara in un’intervista la sua intenzione di dar vita ad un network durante la ricerca in loco per un progetto, con persone da coinvolgere poi in fase di ripresa. Nel caso di Landshaft, ha infatti fatto incontrare locali provenienti da Yerevan e dalla regione di confine, interessati ad un confronto e che diversamente non sarebbero entrati in contatto tra loro. Per non influenzare il flusso o il contenuto degli stessi discorsi, in quanto persona estranea al contesto e alla cultura di appartenenza, il regista si limita a creare una situazione concreta, dal fare una passeggiata assieme allo stare seduti sul divano a bere un tè. Restando fuori dall’interazione, definisce il quadro che i protagonisti riempiono con riflessioni legate alla propria esperienza diretta nella vita quotidiana.

I temi dello sfruttamento del territorio e dell’industria estrattiva sono presenti e trasversali ai lavori del regista in anni recenti. Il documentario immersivo a 360° Water & Coltan del 2021 collega l’ex bacino minerario della Ruhr in Germania alla provincia del Kivu Sud nella Repubblica Democratica del Congo, nei luoghi contrassegnati dalla lotta delle donne nei campi di estrazione artigianale del coltan. La serie di cinque performance Landscape and Bodies si può interpretare come una raccolta di casi studio, sviluppata in collaborazione con musicisti, studiosi e minatori locali provenienti da Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia e Germania.

Rift Finfinnee del 2020 ci porta invece ad Addis Ababa per documentare la trasformazione dello spazio rurale-urbano, uno studio sulle periferie e più in generale sulle dinamiche dello sviluppo urbano iniziato con Hashti Tehran del 2016, in cui la capitale della Repubblica Islamica dell’Iran viene immaginata metaforicamente come una casa, per riflettere sullo spazio come luogo di negoziazione tra centro e zone esterne. Procedendo ancora più a ritroso nelle diverse espressioni della sua ricerca artistica, colpisce la coerenza dell’approccio di Daniel Kötter: l’arte come laboratorio di analisi di contesti sociali, politici ed economici, che dà vita ad una riflessione relativa all’influenza di queste dinamiche su spazi e persone nella loro complessità.

Foto: fotogramma da Landshaft, ©Daniel Kötter

Chi è Francesca La Vigna

Dopo la laurea in Cooperazione e Sviluppo presso La Sapienza di Roma emigra a Berlino nel 2009. Si occupa per anni di progettazione in ambito culturale e di formazione, e scopre il fascino dell'Europa centro-orientale. Da sempre appassionata di arte, si rimette sui libri e nel 2017 ottiene un master in Management della Cultura dall'Università Viadrina di Francoforte (Oder). Per East Journal scrive di argomenti culturali a tutto tondo.

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